Il Sud America tra fango tossico, petrolio e dighe

Il Sud America sta subendo un’ondata di disastri ambientali misti a violazioni dei diritti umani che si intensificano ormai da quattro mesi.
Il 5 novembre 2015 si è verificato il crollo della diga di proprietà dell’azienda mineraria Samarco nella località di Mariana, in Brasile, che ha provocato lo sversamento di oltre 50.000 tonnellate di fango tossico nel Rio Doce, che è poi sfociato nell’Oceano Atlantico, causando 17 vittime, due dispersi e lasciando 2.800 senza l’accesso all’acqua potabile. Ora è il turno del Perù.
Lo scorso 12 febbraio una parte dell’oleodotto appartenente alla compagnia petrolifera di stato Petroperù ha ceduto, probabilmente a seguito di una frana causata dalle precipitazioni portate dal Niño a inizio 2016. Questo ha provocato almeno due grandi fuoriuscite di petrolio che stanno avvelenando il fiume Maranon, uno dei principali affluenti del Rio delle Amazzoni.

In questo caso le ragioni dell’ennesimo disastro ambientale ad aver colpito l’Amazzonia sembrerebbero da doversi attribuire a cause fortuite, ma intanto il petrolio sta invadendo una delle aree della Terra con la più alta concentrazione di biodiversità vegetale e animale
e bisognerebbe quantomeno interrogarsi su quanti altri impianti sono stati collocati in zone che dovrebbero restare incontaminate.
In questo panorama di incertezza, dove la precedenza viene data al profitto piuttosto che all’integrità ambientale e alla tutela dei diritti sociali, i danni causati dall’impianto di Belo Monte si incastrano a perfezione, incrementando la dose di sofferenza riservata ai territori
sudamericani.
Qualche settimana fa abbiamo riportato i dati e i fatti inerenti alla desolazione che i lavori per la realizzazione dell’impianto idroelettrico di Belo Monte si stanno lasciando alle loro spalle, uno scenario composto da incendi, uccisione animale, abbattimento di migliaia di
alberi lasciati a marcire per favorire il traffico di legna illegale, corruzione e violazione dei principali diritti umani.
Una situazione che va peggiorando di settimana in settimana per la realizzazione di un progetto fortemente voluto dal governo brasiliano verso la produzione di energia “pulita”, che in realtà sta condannando a morte le zone adiacenti al fiume Xingu, quelle maggiormente colpite dalla diga.
L’impianto a cura della ditta Norte Energia, che punta a diventare la terza diga più grande al mondo, invaderà 512 chilometri quadrati (un’area vasta quanto la città di Chicago) coinvolgendo parti della foresta amazzonica, terreni coltivati e zone urbane di Altamira, nel
Parà.belo-monte
Il 12 dicembre 2015 la diga di Belo Monte ha iniziato a riempirsi, ma in realtà il lago aveva già iniziato a formarsi il 24 novembre e da allora al 18 febbraio scorso queste operazioni hanno già provocato la morte di 16 tonnellate di pesci ed è molto triste dover riportare dati che quantificano il valore della vita in termini di peso.
Questo si va ad aggiungere ai numerosi casi di violazione dei diritti umani che contraddistinguono questo progetto sin dagli inizi.
Dal 2011, quando iniziarono i lavori per la costruzione della diga che colpirà 40.000 persone, molte comunità indigene hanno iniziato a soffrire di gravi danni alla salute, i servizi pubblici e i centri di cura per i bambini ne hanno risentito, la violenza è cresciuta in modo esponenziale, i casi di omicidio sono raddoppiati, gli incidenti stradali sono aumentati del 144%, le violenze sessuali e la prostituzione sono esplose.
Antonia Melo, cittadina di Altamira e porta voce del movimento Xingu Vivo para Sempre, che fa parte di quelle 3.000 famiglie che sono state sfollate a causa dell’impianto di Belo Monte, ha visto la sua casa demolita da Norte Energia nel settembre 2015.antonia belo monte
Da allora Antonia è una delle persone collocate nelle 2.600 abitazioni realizzate per le famiglie sfollate, stabili con grandi difetti strutturali, acque reflue, isolati dagli adeguati trasporti pubblici e dai servizi essenziali.
La CIDH (Commissione Inter-Americana sui Diritti Umani) aveva ottenuto la sospensione dei lavori, ma si trattava di un provvedimento urgente volto a tutelare le comunità indigene colpite che nel 2011 avevano citato in giudizio il Brasile, ottenendo nel 2015 la valutazione
del caso da parte della Commissione.
La resistenza delle tribù indigene, delle popolazioni colpite e delle persone contrarie a questa grande opera è fondamentale al fine di bloccare un progetto che sta producendo solo inquinamento e devastazione.

Fonti: Exame El Pais – Amazon