L’illusione del cambiamento

Il cambiamento è arrivato – La rivoluzione è in corso – Abbiamo vinto

Queste sono solo alcune delle frasi che si susseguono ormai da molto tempo, espressione di un desiderio di cambiamento sicuramente molto forte, ma che non rispecchiano la realtà dei fatti o, quanto meno, contribuiscono a distorcerla dando valore ad aspetti che di fatto non mutano il corso degli eventi.
La verità è che siamo solamente al cospetto di una forma di neo-capitalismo a tinte verdi studiato per fornire l’illusione del cambiamento, ma che nella sostanza rappresenta sempre quel sistema votato allo sfruttamento, consumo ed esaurimento di ogni risorsa della Terra: un processo condotto nel nome del dio denaro che non risparmia forma di vita alcuna.
Reparti vegan nei templi della grande distribuzione organizzata, prodotti industriali “sostenibili”, gabbie più grandi, allevamenti “etici” ecc., vengono troppo spesso accolti come segnali di vittoria, come soluzioni a problemi creati da un sistema che non ha alcun interesse a risolverli ma, piuttosto, li usa a proprio favore, offrendo al consumatore quell’illusione della scelta che mantiene schiavi e complici di quello stesso meccanismo di sfruttamento globalizzato che magari si cerca di combattere.
Peggio di rinunciare a lottare per il cambiamento c’è solo l’illusione che lo stesso sia avvenuto, senza che in realtà si sia mai verificato, ma poi: di che cambiamento stiamo parlando?pesce-nella-boccia
La politica dei “piccoli passi“, un fenomeno crescente che abbiamo affrontato lo scorso 10 novembre, non ha fatto altro che offrire il fianco all’industria, fornendogli il tempo e il modo di correre ai ripari elaborando soluzioni di facciata che potessero far pensare all’esistenza di un percorso di cambiamento effettivo che, in realtà, porta a finanziare e sostenere sempre lo stesso sistema di dominio.
Una cultura del dominio che vede la sua massima espressione nell’industria della carne e dei derivati animali, un settore che in quest’ultimo periodo sta tentando di rifarsi l’immagine, elargendo concetti vuoti come quello del “benessere animale” e della “carne sostenibile” che lasciano però invariata la sorte ultima degli animali destinati al macello.
Del resto, quale ragione dovrebbe avere un’industria, il cui business si basa sulla schiavitù e lo sfruttamento di coloro che vengono etichettati come “animali da reddito”, di rinunciare all’uccisione degli stessi?
La risposta potrebbe trovarsi nel calo dei consumi di carne e derivati animali che sembra verificarsi in questi ultimi tempi, ma anche in questo caso si tratta solo dati fittizi che non rispecchiano il cambiamento tanto auspicato, in quanto non indicano tanto il calo di animali
uccisi, ma piuttosto una differenziazione delle specie sacrificate.
Asserire che “il 25% dei ragazzi tra i 20 e i 30 anni non mangia carne rossa e il 67% la ritiene dannosa per la salute” non ha alcun significato in relazione alla lotta per la liberazione animale, già solo per il dato in sé, perché la stessa percentuale di persone potrebbe aver semplicemente spostato i propri consumi sulle carni bianche o sulle specie ittiche.
Quello della salute, tra l’altro, rappresenta uno degli aspetti più sterili e marginali della questione, un’altra espressione figlia di quell’antropocentrismo che non porta a cessare il consumo di carne e derivati animali per uno maturato rispetto verso di essi, ma per ragioni egoistiche che non hanno nulla a che fare con gli ideali di liberazione.
Sostenere che la carne rossa è cancerogena, come dichiarato dall’OMS nell’autunno del 2015, non è sinonimo di vittoria ai fini della liberazione animale, ma solo asserzione di un’ovvietà che non dovrebbe sortire alcuna reazione da parte di chi conduce una lotta che, in teoria, dovrebbe basarsi sul risveglio delle coscienze e il sabotaggio diretto e indiretto del sistema capitalista.
Molto spesso, invece, sono le stesse realtà che dovrebbero condurre la lotta a sgonfiarla, veicolando l’attenzione delle persone su percentuali, dati e non-notizie utili solo al reperimento di consensi sui social, portando molti/e ad urlare alla vittoria come se la vita in
gioco fosse la propria.
Ad essere cambiata è sicuramente la percezione del problema, edulcorato da quei “contentini” elargiti dall’industria allo scopo di mantenere propri anche quei consumatori sulla carta più ostili, che dovrebbero rappresentare l’opposizione al sistema capitalista, ma che invece troppo spesso ne sostengono e giustificano l’operato per interessi personali e di comodo.
L’illusione del cambiamento, i piccoli passi, le lotte condotte in maniera settaria sembrano essere più importanti del raggiungimento di un cambiamento effettivo che, per ritenersi tale, non può dipendere dalle concessioni dettate dal sistema, ma dal disconoscimento dello stesso. Un processo dettato dalla consapevolezza che il veganismo non può e non deve rientrare nelle dinamiche industriali, e che rappresenta solo il primo passo in quel percorso verso la liberazione animale, umana, della Terra chiamato antispecismo.