Art Farm: il dominio dell’arte – Olmo

La concezione che l’animale rappresenti un oggetto che deve sempre e comunque sopperire ad un qualche scopo utile all’umano, rappresenta la base del pensiero specista: colonna portante del sistema antropocentrico.
Il concetto di “benessere animale”, molto in voga in questi ultimi anni e più volte sostenuto anche dalle stesse associazioni animaliste, si propone di “restituire” all’animale, prossimo al macello, una parvenza di dignità nell’attesa di esser giustiziat* per il bene del capitale.
Un fenomeno volto a mascherare quel meccanismo di sfruttamento che di fatto non è mai mutato, nascosto da quella cortina di compassione: spazzolone delle coscienze e assicurazione di chi lucra sullo schiavismo altrui.
Fenomeno che si esprime in diversi modi, aprendo a nuove interpretazioni che giustificano e legittimano ulteriormente lo sfruttamento animale, come puntualmente esposto da Olmo nello scritto che vi proponiamo di seguito.

“Ho iniziato tatuando le pelli di maiale, che andavo a prendere nei macelli, nel 1994. E’ stato solo nel 1997 che ho iniziato a lavorare su maiali vivi. Tatuo i maiali perché crescono in fretta e sono molto meglio da tatuare dei pesci. Li tatuo quando sono molto giovani e mi piace osservare come l’immagine si allarga e si distorce col tempo. Sostanzialmente, investiamo in piccoli tatuaggi e coltiviamo grandi quadri”
Win Delvoye

 

Uno dei più importanti “artisti” nel campo del tatuaggio sulla pelle dei maiali è Win Delvoye. Un americano pieno di entusiasmo per il suo lavoro. Delvoye, infatti, tatua: draghi, fiori, immagini sacre e macina soldi portando in giro il suo libro sulle tecniche del tatuaggio. Questo individuo, tanto acclamato per le sue peculiarità oratorie, è invitato in diverse Convention di tatuaggi in giro per il mondo.
Fondatore di un progetto che ha sede in Cina e dal nome serenamente propagandistico: Art Farm, si sta facendo promotore del benessere animale. “Se tatuo i maiali, almeno in quei mesi, non verranno uccisi, non solo, saranno trattati bene sia in termini di libertà di movimento che in funzione di una ricca e varia alimentazione” (la pelle del maiale come quella umana rimane elastica col movimento e un apporto di cibo sano).
Per essere chiari, il suo lavoro non nasce -e si ferma- in Cina (se no figurarsi l’esercito di animalisti del “salviamo gli animali ma estinguiamo gli umani” prenderebbero la palla al balzo per dire: <Ecco sti cinesi di merda, prima mangiano i cani e poi tatuano poveri esseri viventi>) ma in america e poi successivamente in Inghilterra. Ricoperti di tatuaggi e devastati dai tranquillanti o sedativi, i maiali dopo un certo periodo vengono ovviamente macellati, ma attenzione, qui sta l’aberrazione, le pelli vengono staccate e vendute come opere d’arte, per fare paralumi, lampade da salotto, sotto porta-ceneri, cornici. Ornamenti che possono costare centinaia di euro o dollari. In questo articolo non vi è (ovviamente) critica feroce ai/alle tatuatori/trici, artisti che amo profondamente e che nella stragrande maggioranza lavorano in maniera seria ma un consiglio a informarsi quando ci si tatua. La domanda : <Dove hai imparato? E con chi?> può aiutare a capire. Quasi sempre i maiali vengono considerati oggetto, cose inanimate, pezzi da poter disporre senza problemi, ecco perché forse la domanda più “corretta” potrebbe essere: <Con “cosa” hai imparato a tatuare?> in sintesi questa è la chiave di volta per smascherare tali metodologie di apprendimento nell’universo dei tatuaggi. Il “cosa” spinge a neutralizzare il senso di colpa e a “confessare”, nell’individuo, l’inizio dell’accademia. Il dire “con cosa” e non “con chi” predispone l’artista a lasciarsi andare e nel caso in questione, scoprire i suoi primi lavori. Esistono migliaia di tatuatori/trici bravissimi, onesti nel loro lavoro e veri disegnatori dotati, alcuni già utilizzano colori vegani per tatuare, altri, in totale libertà, stanno seguendo un percorso di sensibilizzazione a tali argomenti. Perché dico questo, perché in Inghilterra e in Francia sono stati trovati maiali tatuati in condizioni drammatiche e udite udite, anche in italia, in particolare in allevamenti estensivi. Questo aspetto del dominio sugli animali, in funzione dell’arte, mi ha fatto pensare in questi giorni a un’altra storia che lessi alcuni anni fa. Storia che mi colpì come un maglio di acciaio. La chiamavano la Strega di Buchenwald (uno dei più imponenti campi di sterminio nazista), il suo nome era Ilse Koch. Moglie del comandante Karl Otto Koch, ufficiale delle SS tedesco. Comandante dei campi di concentramento di Esterwegen, Columbia Haus, Lichtenburg e Sachsenburg; e in seguito comandante del campo di sterminio di Buchenwald dal 1937 al 1943. Qui la moglie si divertiva a strappare la pelle e i tatuaggi degli internati Rom ed Ebrei, prima che venissero messi nelle camere a gas. Lo faceva sui corpi martoriati ma ancora vivi. Poi i suoi schiavi (bambini ebrei) cucivano la pelle colorata con i tatuaggi e ci facevano paralumi, sotto-portacenere, cornici. In seguito, Ilse Koch, regalava queste opere “d’arte” agli ufficiali delle SS più influenti della Germania.
Le cene settimanli che venivano fatte all’interno del campo erano famose, frequentate da decine di gerarchi nazisti. Al centro del tavolo, Ilse, soleva mettere una “Tsantsas” cioè una testa umana rimpicciolita, modificata con le tecniche dei nativi della Melanesia e del bacino del Rio delle Amazzoni: gli Shuar e gli Aguaruna. Le teste Tsantsas appartenevano ad ebrei. Dalle testimoniane dei processi successivi alla guerra, pare fossero di adolescenti.
Nel 45 Il Boia di Buchenwald, Karl Otto Koch, venne fucilato, la moglie condannata all’ergastolo. 10 anni fa, nel 2007, in una casa signorile di Berlino furono trovati due quadri e un lampadario fatti con la pelle tatuata degli internati di Buchenwald. A una prima lettura, sembra che gli avvenimenti (i paralumi odierni con la pelle dei maiali e i paralumi del 43 con la pelle dei segregati di Buchenwald) non si assomiglino affatto, anzi, il solo volerli paragonare rischia di essere una disfunzione, ma lo strappare la pelle tatuata a individui vivi, per fare ornamenti colorati, implica per forza di cose una profonda riflessione. E aggiungo una terrificante analogia. Il considerare “cose”, individui, spinge a una sorta di auto-legittimazione del potere sugli altri, ne priva (annientandolo) il corpo e lo proietta a pezzo di “puzzle”.
La “innocenza” di queste opere d’arte, veniva considerata tale (normalità-oggetto) nel 1943 e viene considerata tale anche oggi. Cambiano i corpi ma non la funzione meccanizzata di smontamento in serie. Preferisco non paragonare mai i campi di concentramento polacchi, tedeschi, francesi, americani o italiani con i mattatoi o gli allevamenti intensivi, e questo perché si andrebbe a colpire sensibilità che hanno sofferto l’oppressione costante del martello elettrico, schiavi umani e non.
Non vi è paragone, sono metodologie diverse ma nel caso della mercificazione dei corpi, (sotto forma di arte deviata) vilipesi e scherniti, si, le analogie esistono, eccome. Gli acquirenti del passato e del presente, vedevano e vedono nei paralumi tatuati, attrazione e godimento, adrenalina e interesse in un materiale, tanto vietato quanto elitario e ristretto (entrando così nella cerchia dei soggetti di potere).
La casa, la propria abitazione, prolungamento di uno status di privilegio, guadagna così valenza esclusiva e non più solo dimora del sonno o del cibo. L’alfabeto dei corpi, di questo si tratta. Corpi di seria A, B, C, fino all’abisso del corpo di serie Z.
L’ultima lettera marchiata a fuoco in corpi che non soltanto vengono smontati ma utilizzati per “donare” potere nei soggetti il cui “corpo perfetto” ha funzione di genesi alfabetica.