Allevamenti

Il complesso delle tecniche relative alla produzione di animali utili all’uomo.

Come se si stesse parlando di oggetti inanimati, non presenti in natura, ma generati dall’umano per servire l’umano, alcun* uman*, quell* che garantiscono profitti.

La definizione comunemente conosciuta di allevamento non lascia dubbi sulla natura antropocentrica della stessa: etichetta funzionale a normalizzare sin dal principio il sacrificio industriale di alcuni animali per il bene di altri.
La definizione socialmente accettata, con la quale si vuole determinare una netta e chiara separazione tra gli animali (in quanto considerati bene di consumo, strumento o fonte di guadagno) e l’uman*, ponendo quest’ultim* su un piano di indiscussa superiorità rispetto alla specie animale, dimenticando però di farne parte a sua volta.
La tendenza a celare, edulcorare, giustificare e normalizzare la schiavitù animale è il gioco del sistema capitalista, costruito a sua volta su una concezione antropocentrica della Terra e di chi la popola, che ridipinge laddove rischia di perdere consensi e guadagni: ne sono la prova le ormai innumerevoli campagne per il “benessere animale” promosse allo scopo di ripulire immagini e coscienze.
La verità però va ben oltre la definizione.
Scardinati preconcetti, impostazioni e imposizioni dettate dal sistema, la realtà parla di campi di concentramento appositamente costituiti per generare un distacco (rifiuto) tra ciò che accade all’interno degli allevamenti e il derivato di tale filiera, accuratamente disposto nei banchi di negozi e supermercati.
Il paragone con i lager nazisti non vole cercare sensazionalismi né, tanto meno, mancare di rispetto alle vittime di tale regime, ma al contrario sviluppare un’inevitabile riflessione su come, in un modo o nell’altro, queste strutture siano state concepite allo stesso modo, allo scopo di nascondere la verità al mondo.
Strutture talmente similari tra loro che a Lety (Boemia meridionale, Repubblica Ceca) nel 1974 l’ex campo di concentramento dove morirono più di 340 rom venne convertito, con tanto di sovvenzioni da parte dell’Unione Europea, in un allevamento di maiali, da quest’anno, pare, in fase di dismissione, ma a conferma della predisposizione di questi luoghi alla schiavitù.
Il Campo di Fossoli (in provincia di Carpi) è un’altro esempio di come le costruzioni destinate alla schiavitù seguano il modello introdotto in epoca nazista. Panoramica_del_Campo_di_Fossoli
A pochi metri dai resti dell’ex campo di concentramento, infatti, si può scorgere un allevamento di visoni per la produzione di pelliccia dalla struttura pressoché identica. allevamento fossoli
Non-luoghi che raffigurano al tempo stesso cause e conseguenze dell’attuale regime capitalista: simboli di schiavitù e l’origine di quegli effetti collaterali ormai ben visibili nel quotidiano.
L’industria agrochimicoalimentare, per la prima volta nella storia, ha superato quella petrolifera nella classifica dei principali fattori di inquinamento, posizionandosi al primo posto grazie alla produzione di carne, pesce e derivati animali.
L’operato delle 5 principali lobby del settore supera le emissioni di gas serra complessive prodotte annualmente dalle 3 più grandi multinazionali petrolchimiche: Exxon Mobil, Shell e BP.
Si tratta di JBS (multinazionale brasiliana, la più grande nella lavorazione delle carni), New Zealand’s Fonterra, Dairy Farmers of America, Tyson Foods e Cargill, tutte aziende pressoché sconosciute agli occhi del consumatore, ma che riforniscono la grande grande distribuzione organizzata a livello mondiale.
Come Cremonini, leader nella produzione di carne di manzo a livello italiano ed europeo, fornitore di supermercati e discount (Coop su tutti), di McDonald’s Italia alla pari di Amadori per quanto riguarda il pollame, e insieme di poco staccate nella classifica delle aziende a maggiore impatto ambientale.
Stati Uniti, Canada, Unione Europea, Brasile, Argentina, Cina, Australia e Nuova Zelanda corono oltre il 60% delle emissioni provocate dalla produzione di carne e derivati animali, circa il doppio del resto del mondo, una filiera che si compone di numerosi passaggi:

1: la conversione di foreste in allevamenti e monocolture per la produzione di mangime (in maggioranza soia e mais geneticamente modificati) riduce drasticamente la loro capacità di catturare anidride carbonica e immagazzinare carbonio: in condizioni di normalità le foreste pluviali ne immagazzinano almeno 200 tonnellate per ettaro, mentre nelle zone convertite a pascoli le tonnellate di carbonio immagazzinate per ettaro sono solo otto. Inoltre, che avvenga tagliando gli alberi o attraverso incendi, l’abbattimento della foresta rilascia il carbonio immagazzinato nell’ambiente.

2: l’anidride carbonica e il metano rilasciato dalla respirazione e dalle deiezioni dei viventi che, rinchiusi in spazi angusti e alimentati contro natura attraverso la somministrazione di mangimi a loro volta di origine animale, misti a vegetali trattati con pesticidi e integrati con antibiotici, erroneamente finiscono per essere identificati come l’origine del problema.

3: le emissioni di CO2 prodotte dagli allevamenti ittici e dalla relativa filiera: gli stabilimenti che lavorano il pescato destinato all’ingrasso degli animali negli allevamenti.

4: l’impiego di fluorocarburi, composto chimico particolarmente necessario per la refrigerazione, in ottica trasporto, dei prodotti di origine animale, rispetto a quelli vegetali.

5: lo smaltimento di grandi quantità di rifiuti liquidi e prodotti derivati dalla macellazione (ossa, grasso e parti classificate come non-commerciabili) che continuano a generare emissioni una volta disposti in discariche, inceneritori e corsi d’acqua.
6: la produzione, distribuzione e smaltimento dei prodotti “secondari”: cuoio, piume, pelle, pelliccia e il relativo imballaggio.

7: la produzione, distribuzione e smaltimento degli imballaggi usati per i prodotti di origine animale, che per ragioni igieniche sono maggiori rispetto a quelli impiegati per i vegetali.

8: il rapporto tra industria della carne e dei derivati animali con quella farmaceutica: le cure mediche rivolte agli animali rinchiusi che, in quanto declassati a bene di consumo funzionale al guadagno dell’industria in questione, sono destinatari di interventi allo scopo di debellare malattie zoonotiche (come l’influenza suina o l’aviaria) che possono rappresentare una perdita economica per l’azienda interessata.

Questi aspetti, che per certi versi possono apparire secondari in relazione alla lotta di liberazione animale, assieme all’assunto che identifica nel cambiamento climatico un fattore da cui dipende la sopravvivenza e la libertà di ogni vivente, sono in verità facce della stessa medaglia: autori di una consapevolezza dell’insieme che cancelli approcci settari e quella visione antropocentrica per cui, oltre alla suddivisione delle vite in più o meno sacrificabili, genera classifiche di priorità.
Una visione che dovrebbe riscrivere drasticamente i valori che determinano le lotte ambientaliste o, per meglio dire, restituire alla lotta di liberazione della Terra i principi che la caratterizzato, come nel caso di Hambach.18 - lotta antispecista2
Tralasciando indesiderate derive salutiste, dietiste e modaiole, parliamo di quello che è un preciso atto politico per la liberazione di ogni vivente, e che in quanto tale non può prescindere da aspetti che non solo sono fondamentali, ma parte integrante di un processo al contrario irrealizzabile.
Qualcun* ora potrebbe considerare questo un atteggiamento alla stregua dello “sperare” che la commercializzazione di prodotti vegan da parte di multinazionali che fanno dello sfruttamento animale e della devastazione della Terra il proprio business possa un giorno portare ad un cambiamento.
Ma mentre nel caso appena citato, riconosciuto come mercificazione degli ideali di liberazione, si fa erroneamente affidamento al sistema delegando ad esso le sorti di Terra e viventi, offrendo complicità e sostegno economico alla sopravvivenza di quelle stesse dinamiche di dominio che si crede di combattere.
Nel caso del cambiamento climatico si tratta di intersezione delle lotte!
Si tratta di identificare quei percorsi di lotta paralleli destinati però a rimanere parziali se non si affacciano gli uni agli altri, integrando atteggiamenti e pratiche al fine di porre come obiettivo la liberazione totale (di Terra e viventi), perché è fin troppo chiara l’irraggiungibilità della stessa su una Terra avvelenata, soffocata da cemento misto a ipocrisia, come è altrettanto fallimentare pensare di demolire il sistema capitalista continuando ad alimentare alcune sue derive.

VM

Fonti: Reuters fatto quotidianoIndipendent