L’insostenibile sostenibilità della deforestazione

Il concetto di “sostenibilità”, troppo spesso attribuito alle moderne tecniche di landgrabbing (saccheggio della Terra), in questi ultimi 20 anni ha subito numerosi processi di strumentalizzazione e mistificazione del termine, generando un fenomeno denominato greenwashing.
Tra i pionieri di questa biotruffa come non ricordare l’RSPO (tavola rotonda per l’auto certificazione dell’olio di palma sostenibile): organo di facciata fondato nel 2004 da multinazionali del calibro di Aak, Migros, MPOA (Malesyan Palm Oil Association), alle quali un anno dopo si sono aggiunte Cargill e Wilmar, attualmente sostenuta da Unilever e WWF.
Uno strumento appositamente creato per tutelare le opere di deforestazione condotte dalle multinazionali associate e di quelle che, in generale, hanno costruito una fortuna attorno la produzione e l’impiego di olio di palma, tra queste: Nestlé, Ferrero, Eni, Mars, Barilla, McDonald’s, P&G e molte altre.marchi odp bio
Fenomeno di greenwashing che ha presto raggiunto una delle industrie di punta dello sfruttamento animale, tra le principali cause delle deforestazione a livello mondiale, quella della carne e dei derivati animali il cui operato viene da anni edulcorato attraverso il concetto di benessere animale, più volte sostenuto e promosso dalle stesse associazioni animaliste.
Soia e mais, prevalentemente ogm e destinate all’industria della carne, e quelle di palme da olio sono tra le monocolture maggiorente invasive. Ne sa qualcosa il Borneo dove nel solo autunno del 2015 incendi pilotati e conseguente deforestazione, condotta principalmente dalla multinazionale Wilmar, hanno distrutto 700.000 ettari di foresta primaria.
Processi industriali impiegati regolarmente anche nelle foreste dell’Amazzonia dove, oltre alle monocolture già citate, da circa 10 anni si fanno strada le piantagioni di cacao.
Ad essere maggiormente colpite sono le foreste del Perù, già saccheggiate dal mercato dell’olio di palma, e che dal 2013 hanno subito un massiccio processo di landgrabbing condotto dalla United Cacao, ora chiamata Tamshi SAC, di cui avevamo già riportato le violazioni nel marzo 2016.
Il cambio del nome trova spiegazione nella condanna combinata ai dirigenti dell’azienda nel 2019, tra cui il direttore che ha ottenuto otto anni per traffico illegale di legname.
Condanne scaturite dalle indagini satellitari condotte dal 2013, e dalle foto ad alta risoluzioni che avevano mostrato i cimiteri di legnami sorti a seguito dell’espandersi delle piantagioni di cacao.
La United Cacao, attraverso il suo portavoce Melka, per anni ha tentato di scaricare la responsabilità della scomparsa di circa 2.500 ettari di foresta sull’operato dei contadini dai quali la multinazionale aveva acquistato i terreni.
L’argomentazione esposta da Melka implicava che rimanesse solo una foresta secondaria, ormai più come piantagione che avrebbe potuto sopperire alla richiesta di cacao nel mondo, piuttosto che preservarla come parte della più grande foresta pluviale del pianeta.
Non contento, Melka, ha denunciato per diffamazione la redazione di Mongabay, tra i primi a denunciare l’operato della United Cacao e accusati di aver usato in modo scorretto il termine “deforestazione”.
Del resto già in passato i vertici della United Cacao, allo scopo di vedere la propria azienda quotata nella borsa di Londra, strumentalizzarono il concetto di “sostenibilità” millantando un’etica impeccabile nella gestione delle piantagioni nell’Africa occidentale, da dove proviene il 70% del cacao esportato nel mondo, l’attenzione ai diritti umani e la cura dei territori colonizzati.
Il taglio selettivo impiegato da anni in Amazonia di per se non determina la perdita delle foreste, ma la deforestazione in scala industriale ne provoca la morte, ricadendo sul delicato equilibrio dei vari ecosistemi.
Le foreste in questione, oltre a rappresentare la casa per numerose specie di fauna e flora selvatica, sono alla base dello smaltimento del carbonio e della regolazione delle precipitazioni, fenomeno sempre più alterato negli ultimi anni.
L’utilizzo inflazionato di termini come “sostenibilità” restano fine a se stessi se le parole non sono seguite da fatti concreti, concedendo alle multinazionali di reiterare le opere di landgrabbing sui polmoni della Terra.

System Change not Climate Change

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