Expo 2015: “benessere animale” (parte 2)

Seconda parte del terzo articolo inerente a Expo 2015, mirato a far luce sulle intenzioni di questo “grande evento” di porsi come piattaforma risolutiva a problematiche come la fame nel mondo, la gestione responsabile dei terreni e il “benessere animale”.

Nella prima parte dell’articolo abbiamo evidenziato come non vi sia alcuna idea innovativa e realmente efficace all’orizzonte per sopperire a questi problemi; in questa parte andremo a vedere quali sono le realtà che hanno ricevuto da Expo il demanio di affrontare le tematiche citate.
Vi ricordiamo che questi articoli si basano principalmente sul dossier su Expo 2015 redatto dal collettivo Farro&Fuoco, attraverso il quale potrete approfondire ogni aspetto da noi trattato.

Ad aprire la nostra carrellata sulle realtà ingaggiate da Expo per trattare dell’aspetto alimentare c’è Slow Food, cui è stato assegnato il padiglione “Biodiversità e malnutrizione”, un’area di 3.500 mq (poco più di due campi da calcio) che fungerà come piattaforma di lancio per Eataly (di cui però parleremo nel quinto e ultimo articolo).
Il fatto che a trattare di tematiche come biodiversità e malnutrizione sia stato chiamato Slow Food la dice lunga sulle intenzioni di Expo di fornire soluzioni che possano garantire cibo per tutti e su come venga concepito il concetto di “benessere animale”.

Slow Food da anni gira per il Bel Paese esponendo prodotti territoriali con l’intento di salvaguardare la tradizione, di valorizzare il made in Italy; ma sulla pelle di chi? Per la maggior parte, altro non si tratta che di belle esposizioni dei soliti prodotti frutto della prevaricazione dell’uomo ai danni di altri esseri viventi, quelli ritenuti sacrificabili per la gola, la tradizione e il portafoglio.

Torniamo quindi al concetto di “benessere animale”, quantomai mercificato e privato di ogni contenuto, perché il tutto si riduce a fornire all’animale allevato delle condizioni di vita meno stressanti, ma sempre al fine ultimo della morte prematura per benefici altrui, e fin quando il risultato finale sarà il sacrificio di una vita, di benessere animale non si può parlare.

Ma è doveroso soffermarsi un attimo su questi presunti “benefici altrui” di un’alimentazione basata sul consumo di carne e derivati animali, una conduzione di vita che resta tra le prime cause al mondo dell’insorgere di patologie come obesità, diabete, malattie cardiovascolari e cancro. Quindi preoccupa ancor di più che il padiglione sulla malnutrizione sia stato assegnato a una realtà che promuove il consumo di salumi, formaggi etc.
Saremmo curiosi di sapere in che modo Slow Food pensi di fornire una visione corretta di biodiversità, considerando che quella proposta attraverso l’esposizione dei suoi prodotti esprime come alcune specie siano ritenute sacrificabili per i guadagni, mentre altre perché essi possano realizzarsi.

L’esempio calzante proviene da una costola di Slow Food: Slow Fish, ovvero il consumo “sostenibile” delle varie specie ittiche, espresso però attraverso l’inutile sacrificio di quelle ritenute non all’altezza di giungere sui banchi d’esposizione. Parliamo delle tonnellate di pescato rigettate in acqua considerate inutili e accessorie rispetto alle specie prescelte da Slow Food.
Questo è un processo che priva le vittime della pesca, quantificate in peso e non per individui, di ogni tipo di soggettività, un processo che porta il consumatore a ritenere le specie ittiche meri oggetti di consumo, tanto che molti che si definiscono vegetariani non escludono il pesce dalla propria alimentazione.

Sono circa un trilione le specie ittiche sacrificate ogni anno per il piacere della tavola, tutto questo anche grazie al contributo di Slow Food, e quindi ci domandiamo nuovamente in che modo vorrebbero attribuire il concetto di “benessere animale” all’agonia riservata alle vittime della pesca.

Ma c’è un’altra realtà convocata da Expo e investita del compito di affrontare il tema alimentare nel corso della fiera espositiva, che fa del “benessere animale” e dell’impegno per una maggiore sostenibilità ambientale un vero e proprio vanto e marchio di fiducia da svendere ai consumatori.
Stiamo parlando di Coop e del processo di greenwashing che cerca di proiettare su ogni suo prodotto, con scarsi risultati però, se non quelli di vendere al consumatore un’idea di sostenibilità impalpabile, utile solo a farlo sentire più sollevato al momento dell’acquisto. Perché è esattamente di questo che si tratta, di trasmettere al consumatore l’idea che le proprie scelte non provochino danno alcuno a terzi, anche se la maggior parte dei prodotti commercializzati da Coop sono frutto di deforestazione, oppressione dei popoli, sfruttamento e morte animale.

Un’illusione di sostenibilità rafforza dal doppio premio assegnato a Coop nel 2012 dalla C.I.W.F. (Compassion in World Farming), associazione per il benessere animale fondata nel 1967 da un allevatore di mucche da latte. Uno strumento per tenere sotto controllo il circuito tra controllori e controllati, che permetta agli allevatori di autoregolarsi senza dover dare spiegazioni a nessuno ed elogiarsi autonomamente per le tecniche impiegate.
La C.I.W.F. non rappresenta altro che l’ennesimo organo di pulizia dedicato ai soliti noti, una certificazione che permette di nascondere i reali crimini commessi da piccole aziende, multinazionali e marchi vari, e questo lo si può comprendere facilmente scorrendo la lista delle aziende premiate, tra le quali compaiono: Amadori, Cremonini, Barilla, Coca Cola, McDonald’s, KFC, Burger King e molti altri.

La mercificazione del concetto di “benessere animale” però prosegue con altre tecniche di cui la Coop fa un vanto, come il fatto di utilizzare solo galline allevate a terra, aspetto che gli ha permesso di ricevere il premio Good Egg.

Ma allevare le galline a terra non significa assolutamente per le galline libertà e spazi verdi, come l’espressione vorrebbe suggerire, ma ancora una volta affollamento, stress e ammoniaca delle proprie deiezioni, molto spesso dentro capannoni al chiuso dove non viene mai vista la luce del sole e dove è quasi impossibile sopravvivere a causa della tossicità dell’aria. Uno stress talmente elevato che ha portato gli allevatori delle galline ovaiole e dei polli da carne alla pratica del debeccaggio, il taglio di metà becco del volatile… – dossier di Farro&Fuoco

Non va dimenticata la sorte che spetta ai pulcini maschi al momento della schiusa delle uova che, non rappresentando alcun valore per l’industria della carne, vengono scartati alla nascita e gettati vivi in una macchina che li riduce in poltiglia, che mischiata ad additivi alimentari viene poi usata per produrre polpette e hamburger. Una sorte che del resto prima o dopo spetta anche alle femmine, solitamente dopo due o tre anni, quando la produzione richiesta di uova inizia a calare.

Coop però ha fatto sapere di voler porre un freno a questi inutili sprechi avviando la selezione di una specie di polli che possa dare sia femmine ovaiole che maschi adatti a riempire i banchi della macelleria: una nuova frontiera nello sfruttamento di massa.
Ma in questo scenario di reclusione, sovraffollamento e sterminio, a Coop è stato assegnato anche il premio Good Chicken.

…attribuito perché l’azienda ha concesso un po’ di spazio in più e posatoi nei capannoni dei broiler, i polli da carne. Pieni di farmaci e antibiotici, medicine somministrate a tutti gli animali d’allevamento per prevenire e curare le malattie causate in primis da incroci e processi di selezione che ne indeboliscono il corredo genetico e di conseguenza le difese immunitarie, poi dalle malsane condizioni di detenzione cui versano, questi volatili vengono fatti ingrassare 49 nel minor tempo possibile in modo che non si sprechi tempo e mangime: dopo 36 giorni, sufficienti in media a raggiungere il peso ottimale, vengono macellati in vere e proprie catene di smontaggio. – dossier di Farro&Fuoco

A conferma di quale sia il vero concetto di “benessere animale” espresso da queste aziende, e diciamo queste perché gli aspetti appena trattati riguardano ogni supermercato e discount, non solo la Coop che in più ha solo il fatto di sbandierare fiera principi e ideali che non possiede.

Per concludere, un ulteriore esempio che rafforza la tesi appena espressa è rappresentato dal rapporto tra Coop, mercato dell’olio di palma, il presunto impegno dell’azienda a ridurne l’impiego nei propri prodotti e il fornire maggiori garanzie sulla provenienza di questa sostanza.
Un impegno ad oggi mai espresso veramente visto che l’olio di palma resta fedelmente presente nei prodotti a marchio Coop, nonostante Earth Riot lo scorso settembre abbia personalmente ricevuto rassicurazioni dal Presidente di Coop Adriatica sul fatto che a breve questo ingrediente sarebbe stato eliminato dalla filiera produttiva.
Per ogni approfondimento sulla questione olio di palma vi invitiamo a visitare le apposite sezioni sul sito di Earth Riot e a leggere gli articoli pubblicati finora.a2 olio di palma

A Expo 2015 non vi sarà nulla di nuovo quindi, sia a livello di proposte, sia per quanto riguarda le strategie da mettere in campo per sopperire a problematiche che di certo non troveranno risoluzione attraverso l’esaurimento di ogni risorsa del pianeta, la schiavitù, la tortura e la morte di miliardi di esseri viventi ogni anno per l’alimentazione di pochi e la povertà di molti.

Leggi anche: