L’arte che giustifica la mattanza

Il sistema industriale che conosciamo, quello che alimenta capitalismo e consumismo, quello votato allo sfruttamento e al consumo di ogni risorsa “disponibile”, con la presupposizione antropocentrica che le risorse del Pianeta siano qui a nostra disposizione, sta spingendo sempre più per rendere culturalmente e socialmente accettabili le più disparate pratiche di prigionia e morte quotidiana, conferendo a queste una parvenza di legalità.
Invece di impegnarsi seriamente nel ricercare soluzioni realmente sostenibili ed eque per risolvere problemi quali fame nel mondo, inquinamento e una deforestazione che si allarga ogni giorno di più, istituzioni e governi preferiscono impegnarsi a spacciare per sano, pulito e giusto qualcosa che è l’esatto contrario, spesso coadiuvati e sostenuti da quelle associazioni che, in teoria, dovrebbero fare gli interessi della Terra.
Questo avviene perché gli altri interessi, quelli economici, rappresentano qualcosa di irrinunciabile per queste entità, che ritengono sacrificabile una foresta o l’integrità dei mari, e accettabile la morte di qualche miliardo di animali.
L’industria della carne e dei derivati animali, quella ittica, l’industria petrolifera e agrochimica, solo per fare alcuni esempi, rappresentano una fetta di mercato troppo grande per avere il coraggio, da parte di chi vi lucra sopra, di porre un freno allo sfruttamento che causano.
Così vengono studiate formule e certificazioni fuorvianti per far credere al consumatore che esista la “carne felice” o che il concetto di “benessere animale” tanto sbandierato da realtà come Coop e Slow Food sia una pratica realmente a favore della vita degli animali.
Vengono utilizzate terminologie strategiche come nel caso dell’associazione Compassion in World Farming (CIWF), un organo che annualmente rilascia premi alle aziende che si sono distinte per la produzione “sostenibile” di carni e derivati animali.
Tra le aziende premiate recentemente compaiono nomi del calibro di Cremonini, Amadori, Barilla, McDonald’s, KFC, Coop e molte altre.

Assistiamo quindi alla strumentalizzazione del termine “compassione” che, in mano a chi determina la morte di miliardi di animali ogni anno, senza dimenticare ciò che la produzione di carne e derivati animali comporta, perde di fatto ogni significato.
Quale compassione dovrebbe esserci nell’uccisione di un altro essere vivente? Offrire all’animale condannato a morte qualche ora di aria al giorno o garantirgli una morte più rapida? Questa non è compassione; questo è solo un modo per pulirsi la coscienza e per offrire al consumatore un prodotto verso il quale egli stesso non prova alcun senso di colpevolezza nel consumare perché realizzato con “compassione”.

A Grosseto non si punta sulla compassione, ma il meccanismo è lo stesso: in nome di una presunta sostenibilità ambientale, si promuove la cosiddetta pesca legale dietro alla bellezza e all’innovazione dell’arte sottomarina. A Talamone è nato il primo o “parco sottomarino dell’arte” chiamato “La Casa dei Pesci”, un progetto che si pone a tutela degli ecosistemi marini e della preservazione delle creature ittiche. Può sembrare tutto moto bello, senonché questo parco, che dovrebbe contrastare la pesca illegale, a strascico, contribuendo alla ripopolazione dei pesci, altro non è che l’ennesima trovata per garantire ai pescatori definiti “legali” e “ambientalisti”, il che rappresenta già un ossimoro, una valida fornitura di “materia prima”. Un parco dove sarà possibile effettuare turismo subacqueo, contribuendo a rafforzare quell’idea culturale che considera giusta l’uccisione di specie ittiche per l’alimentazione umana.
Questo progetto, sostenuto anche da Greenpeace, si pone come avanguardia per la tutela degli habitat marini, il tutto condito con il solito inesistente velo di ambientalismo e sostenibilità che poco ha a che vedere con le speculazioni economiche e il permanente obiettivo di far credere alle persone che solo un tipo di pesca debba essere considerato illegale, o meglio contrario all’etica. Esistono pratiche più invasive e meno invasive per la salute dei fondali marini, ma il risultato finale è pur sempre lo stesso: la morte per soffocamento di circa un trilione di creature ittiche ogni anno, per quanto vi sarebbe da indignarsi se si trattasse anche di una “sola” vita.

A nostro avviso, se proprio vogliamo identificare i pescatori legali e quelli sostenibili, questi ultimi sono da ritrovare solo tra i membri di quelle popolazioni indigene che pescano qualche pesce ogni tanto, senza scopo di lucro, ma unicamente per la propria sopravvivenza, ponendosi sempre con rispetto verso l’ambiente che abitano.
Ma un conto è condurre questo stile di vita, un altro è delegare a terzi l’uccisione delle varie specie al solo scopo di ingrassare il sistema e se stessi, e di dar modo al consumismo di crescere indisturbato senza alcuna compassione reale nei confronti di chi si contribuisce ad uccidere né preoccupazione particolare del fatto che prima o poi le risorse finiranno.

Il concetto è molto semplice: non esiste pesca legale o sostenibile, ma solo pesci schiavi e uccisi o pesci liberi nei mari, e il solo concetto di “benessere animale” accettabile è quello che prevede la liberazione di ogni essere senziente al quale vanno riconosciuti nostri pari diritti di vita.