Legna illegale e foreste in ginocchio

Il dramma della deforestazione che minaccia quelle aree verdi grazie alle quali il Pianeta respira, che hanno la funzione di regolare il clima e le precipitazioni atmosferiche, non minaccia solo con l’aumentare delle monocolture, dalle coltivazioni di OGM che rendono sterili i terreni, degli allevamenti intensivi di bestiame.
Esiste un altro fattore di cui forse non si parla molto: il traffico illegale di legname che ricopre il 15/30% del commercio globale, gestito da delle vere e proprie ecomafie per un business che oscilla tra i 100 ed i 300 miliardi di dollari all’anno, tanto da diventare la terza fonte di introiti delle mafie mondiali.
Nel 1990 negli Stati Uniti viene redatta la normativa che regolamenta il traffico di fauna locale, introdotta anche in Europa nel più recente 2008, con l’intento di tutelare e preservare quelle aree verdi che rischierebbero altrimenti nel tempo di scomparire.
Le specie di alberi vittime di questo traffico illegale sono in maggioranza quelli provenienti dall’Amazzonia, dal Sud-Est Asiatico e dall’Africa Centrale, paesi già colpiti a sufficienza per altri traffici dal fenomeno di deforestazione e che fanno registrare un tasso di povertà dovuto proprio ad un mercato a senso unico, che priva continuamente i popoli di quelle zone delle uniche risorse a loro disposizione.

bimbo pigmeo.

Il commercio illegale di legname ha un impatto non solo ambientale, ma anche sociale: va infatti a pesare su tutte quelle popolazioni indigene residenti nei paesi citati che hanno nel legname l’unica forma di sostentamento e che storicamente si impegnano a preservare, contribuendo così alla tutela degli ecosistemi.
I piccoli produttori e commercianti finiscono, come sempre, per essere le vittime di questi traffici, trovandosi il mercato sbarrato dalle mafie e di conseguenza spesso per sopravvivere sono costretti a stringere accordi con loro, accordi che li vedranno comunque in perdita, sfruttati e perseguiti.

Negli ultimi dieci anni, sono stati compiuti notevoli progressi per proteggere le foreste dall’abbattimento indiscriminato e dal taglio illegale.
Dagli Stati Uniti, all’Unione europea, all’Australia, i paesi importatori hanno adottato leggi volte ad escludere il legname rubato, mentre i più importanti paesi produttori, come l’Indonesia, hanno migliorato le misure di controllo del taglio illegale.
In Cina, però, si verificano fatti contrastanti: mentre da un lato sono state adottate leggi mirate  alla tutela delle proprie foreste e alla rigenerazione delle zone già distrutte, dall’altro il governo cinese alimenta il mercato importando legno dai paesi sfruttati, contribuendo di fatto alla deforestazione e all’impoverimento di quegli stati.
Non sarà possibile valutare l’entità esatta dei traffici fino a quando la Cina non attuerà provvedimenti che possano distinguere il mercato legale da quello illegale.

Un piccolo, grande contributo che possiamo dare per non finanziare tutto questo è evitare di fare i nostri acquisti dai grandi rivenditori, come l’IKEA ad esempio, privilegiando così i piccoli artigiani più scrupolosi riguardo alla provenienza del legno.
Ikea, tra l’altro, che sarebbe da evitare in quanto coinvolta nel mercato dell’olio di palma, spesso impiegato nella produzione di cibo e candele. Olio di palma che Ikea è lieta di informarci sarà suo impegno verificare che sia sostenibile… a partire dal 2016. Così come per la metà del legno che utilizza per la costruzione dei propri articoli. Perché aspettare il 2016? Quante foreste pluviali (e non) saranno abbattute nel frattempo? Questo perché Ikea preferisce aspettare? O forse è solo un modo per darsi un’aria più green nel 2012… e poi sarà quel che sarà? E poi perché solo metà del legname che acquista e impiega dovrebbe provenire da fonti controllate? Le foreste sono importanti nella loro totalità e non solo per metà.
Per non parlare delle sue politiche riguardo i propri lavoratori, tanto quelli impiegati nei punti vendita (bassi salari, poca disponibilità al dialogo e al rispetto dei diritti, certificazioni mediche in contrasto con quelle delle ASL, intimidazioni, licenziamenti di massa) quanto per quelli che lavorano negli stabilimenti di produzione (salari bassissimi, che non permettono di vivere dignitosamente, intimidazioni e minacce, persecuzione dei sindacati ove riescono a nascere).

Insomma, il nostro consiglio è sempre lo stesso: nel dubbio preferite il “piccolo”, piccoli commercianti, piccoli, artigiani, piccoli produttori. Il “grande” è sempre molto incerto, misterioso, preoccupato a costruirsi una bella facciata da una parte e un bel profitto dall’altra, tanto da non dare importanza a tutto il resto, siano ambiente, lavoratori, consumatori… qualsiasi cosa.