Morire per un infradito: #JusticeForKentexWorkers

L’ennesima tragedia che si sarebbe potuta evitare se solo si imparasse qualcosa dalla storia, se solo la vita contasse di più del profitto.
Sono passati poco più di due anni dalla strage del Rana Plaza, fabbrica tessile di Dacca, in Bangladesh, che riforniva grandi marchi dell’abbigliamento tra cui Benetton, il cui crollo nell’aprile 2013 ha provocato la morte di 1.135 persone; oggi siamo nuovamente costretti a raccontare una storia tristemente simile.

Lo scorso 13 maggio, a Manila, nelle Filippine, un incendio di sette ore divampato in una fabbrica di infradito ha provocato la morte di 72 lavoratori, per la maggior parte donne, arsi vivi mentre il capannone crollava su se stesso.
L’informazione sull’accaduto diffusa dalle nostre parti è stata scarsa: l’Ansa ne ha dato notizia, la campagna Abiti Puliti ha subito abbracciato la causa, ma poi tutto è tornato a tacere, come se ormai fosse considerato normale dover registrare periodicamente decessi sul lavoro.
Esattamente come è successo per la vicenda in Bangladesh, per la quale la Benetton ha impiegato due anni per provvedere all’ancora parziale risarcimento delle famiglie delle vittime, come se un conguaglio economico possa sopperire alla mancanza dei propri cari. La vita non ha più alcun valore per le aziende della grande distribuzione, per la società, o, per bene che vada, si riduce tutto a una fredda cifra economica che sminuisce ulteriormente l’importanza di ogni singola vita.

La tragedia avvenuta a Manila è figlia di speculazioni, appalti e subappalti, impianti non a norma, misure preventive inesistenti, perché intanto l’obiettivo, che si tratti di aziende locali o multinazionali estere, è quello di far leva sulla disperazione di chi accetterebbe qualsiasi condizione pur di poter lavorare. Una storia che si ripete da decenni, quella che vede coinvolti i paesi dove il tasso di povertà è più elevato, i governi più corruttibili, e la possibilità di impiegare la manodopera per orari di lavoro superiori al sopportabile umano, in ambienti inadeguati, sottopagandola.

Nella fabbrica della Kentex Manufacturing Corporation, a Manila, l’incendio si è scatenato a causa di sostanze chimiche presenti sul pavimento del piano terra – abbandonate malamente lì piuttosto che custodite in un magazzino a parte – che hanno reagito alle scintille provenienti da un lavoro di saldatura che alcuni operai stavano eseguendo su una porta nella fabbrica. Gli operai non erano stati informati sulla natura delle sostanze chimiche, usate come emulsionanti per la gomma.
La fabbrica era sprovvista di un allarme e di uscite antincendio e gli impiegati non erano mai stati sottoposti a un’esercitazione che li preparasse a simili eventualità.
Come se non bastasse, le finestre erano state rinforzate con griglie d’acciaio e reti per il trasporto di bestiame molto difficili da rompere e il tetto rinforzato in modo tale da evitare furti, senza però preoccuparsi della sicurezza degli operai all’interno.
La fabbrica non era a norma, sprovvista anche di un impianto di ventilazione e del certificato di sicurezza per gli anni 2014 e 2015.
Alcuni testimoni della vicenda hanno raccontato di aver visto gli operai del secondo piano tentare di rompere le griglie delle finestre, ma delle 70 persone lì presenti sono solo quattro quelle che, scalando il muro sul retro della fabbrica, sono riuscite a gettarsi giù dall’edificio scampando così al rogo.

Per le famiglie delle vittime il dolore è ancora più forte per poter nemmeno riconoscere i propri cari tra le macerie, irriconoscibili a causa dell’incendio che ha divorato intere famiglie lasciando molti orfani dal futuro ora incerto.filippine famigliari vittime
Come nel caso di Mary Ann Tenis, impiegata da cinque mesi con contratto irregolare, madre single che lascia tre bambini, il più piccolo di nove mesi.
Oppure quello di una famiglia di cui quattro membri su cinque ora rimangono solo ceneri: padre, madre e i due figli maggiori, che lavoravano per la Kentex durante l’estate. Della famiglia oggi rimane il figlio minore, solo perché non ancora abbastanza grande da lavorare nella pausa estiva.

L’aspetto preoccupante di questa vicenda, come di quella del 24 aprile 2013 del Rana Plaza, è che queste cose accadono. L’aspetto inquietante è che vengono quasi socialmente accettate, vissute come tragedie surreali, appartenenti a una realtà parallela che non è la nostra, di cui si rifiuta l’esistenza o non si percepisce l’effettiva drammaticità solo perché accadono a migliaia di chilometro di distanza da dove viviamo.

Il 13 maggio 2015, 72 persone sono morte mentre fabbricavano infradito; il 24 aprile 2013 1135 decedute perché producevano abiti per i grandi marchi. Questi sono fatti che devono sconvolgere e non far parlare la sera mentre magari si guarda il telegiornale seduti a tavola con la propria famiglia, per poi un’istante gettarli nel dimenticatoio, distratti dallo spot televisivo o dalla scoppiettante notizia sulla star di turno.
Se perdiamo la sensibilità e la solidarietà verso il prossimo facciamo il gioco di chi specula sulla vita altrui, conferendo più valore al profitto piuttosto che alla vita, umana e non umana.

Dobbiamo capire che siamo tutt* cittadin* dello stesso Pianeta, e questo pensiero dovrebbe bastare a farci sentire l’un* vicin* all’altr* e, allo stesso tempo, a darci l’input per rifiutare e combattere le condizioni di povertà, schiavitù e prigionia ancora presenti, senza distinzione di etnia, identità di genere e specie.

E, parlando di solidarietà, vi vogliamo segnalare la pagina Facebook che è stata aperta allo scopo di dare la possibilità, a chi ne senta il desiderio, di esprimere la propria vicinanza e il proprio sostegno alle famiglie delle vittime della Kentex Manufacturing Corporation: #JusticeForKentexWorkers. Mentre per il 13 giungo è stato indetto un Global Day of Action, per lottare ancora una volta contro lo sfruttamento dei lavoratori e ricordare le vittime di Manila.filippine 13 giugno

Fonti

One thought on “Morire per un infradito: #JusticeForKentexWorkers

  1. Vi segnalo anche la strage avvenuta nel 2011 a Barletta: 4 donne che lavoravano in nero sono rimaste schiacciate per il crollo del laboratorio in cui cucivano magliette…Matilde, Giovanna, Antonella e Tina …sfruttate da un sistema che lascia poco spazio al valore della vita e troppo al profitto…costrette dalla realtà contingente a “perdere” il proprio tempo, e la propria vita, per 3,95 euro all’ora…
    Tutte vittime dello stesso sistema di sfruttamento e schiavitù che è il capitalismo.

Comments are closed.