Si scrive progresso, si legge genocidio

bimbo Penan – foto di Robin Hanbury-Tension per Survival

Le tribù indigene, che siano quelle amazzoniche, del Borneo o africane, rappresentano la salvezza per le foreste che abitano, quei rari angoli verdi che influiscono sul clima globale che rimangono sul Pianeta.
Lo stile di vita di questi popoli, come Awa, Guaranì, Penan, Dayak e molti altri, rispettosi dell’ambiente che li circonda, permette la sopravvivenza della biodiversità e delle innumerevoli specie di vita vegetali e animali che popolano queste foreste.
Ma, per le grandi aziende, per chi vede nella natura unicamente una fonte di guadagno, queste tribù rappresentano un ostacolo all’opera di colonizzazione dei terreni che quotidianamente le corporazioni portano avanti. 
I mezzi utilizzati per cacciare i popoli dalle loro terre di origine sono tra i più efferati e si ripetono nel tempo.
Giorni fa è stato rinvenuto il Rapporto Figueiredo, un documento che descrive nel dettaglio il genocidio patito dagli indiani del Brasile tra gli anni ‘40 e ’60, commesso dai latifondisti dell’epoca che senza alcun scrupolo usarono ogni tipo di violenza pur di liberarsi di loro.

membri della tribù dei Cinta Larga

Schiavitù, abusi sessuali, torture, assassini di massa, furti e negligenze… di questo si parla nel rapporto. 
E ancora: il rapporto spiega di come di come i Maxacali siano stati fatti ubriacare, per rendere ai sicari più semplice la loro uccisione; dei Beiços-de-Pau, il cui cibo fu intriso di insetticida e arsenico…
In particolare, l’atroce storia dei Cinta Larga, sotto attacco dagli anni ’20 per mano dell’industria del caucciù.
Nel 1963, Antonio Mascarenhas Junqueira, responsabile della compagnia Arruda, Junqueira & Co., che definiva gli indiani parassiti da sterminare, noleggiò un piccolo aereo con cui sorvolò il villaggio dei Cinta Larga e vi sganciò candelotti di dinamite. Non contenti, più tardi alcuni assassini tornarono a piedi al villaggio per finire i sopravvissuti, dove trovarono una donna, mentre allattava il figlio. Presero il bambino, gli tagliarono la testa, appesero la madre a testa in giù e la tagliarono in due.
Dopo questi deliberati attacchi, questa irrefrenabile e inaccettabile ferocia, fu stimata la scomparsa di 80 tribù, mentre di altre restava qualche singolo individuo.

Ma le stesse tecniche di sottomissione vengono utilizzate ancora oggi sui popoli indigeni che ogni giorno lottano per la propria sopravvivenza e la difesa della terra.
Le minacce arrivano dai taglialegna illegali, da chi vuole trasformare le foreste in monocolture intensive, come quelle di palme da olio, o allevamenti per l’industria della carne, dalla costruzione di nuove dighe idroelettriche che priverebbero dell’acqua, la risorsa che più di ogni altra rappresenta la vita, migliaia di persone.
Questo accade ogni giorno e chi compie queste azioni lo fa con leggerezza perché sa che difficilmente rischia di essere consegnato alla giustizia; troppi interessi vi sono dietro, le multinazionali che ordinano questi massacri sono troppo potenti rispetto a chi semplicemente vive nella natura senza arrecare fastidio alcuno.

Quando questo falso progresso decide che ha bisogno di impadronirsi di un pezzo di terreno, di una collina o un lago, non importa in quale zona del mondo si trovi, a quel punto la sopravvivenza di quel determinato luogo e di chi lo abita sono in pericolo.
Non commettiamo l’errore di percepire questi popoli e la realtà in cui vivono distanti da noi, perché siamo tutti abitanti dello stesso Pianeta ed a tutti deve essere garantito un posto in cui vivere e il rispetto per la propria cultura.