Uno, nessuno, un trilione: la vita secondo la società

Specie protette, specie a rischio di estinzione, specie considerate “sacrificabili” o “predisposte al sacrificio”, specie “da compagnia”, specie “da reddito”.
Queste sono le distinzioni più comuni che spesso vengono fatte dai governi, da realtà ambientaliste e animaliste, dal consumatore disinformato o disinteressato, per stabilire delle categorie (e quindi dei limiti) morali, una scala d’importanza che permetta di giustificare la fine di una vita o condannarne un’altra.
Ma una vita è una vita e non dovrebbe esservi alcuna distinzione dettata dalla specie di appartenenza o dal numero di esemplari ancora in vita, esattamente come l’indignazione espressa non dovrebbe variare a seconda del numero di vittime causate dall’industria, dal mercato e dal falso progresso. Ma così non è.io sono

Molto spesso sono solo i grandi numeri a creare scalpore, ma dietro a questi numeri vi sono delle vite ed ognuna dovrebbe ricevere lo stesso trattamento, un uguale supporto, che si tratti di 70 miliardi di animali a rischio di uccisione oppure di uno soltanto.

Ridurre tutto a dei singoli numeri rischia di privare le vittime di pesca, industria della carne e dei derivati e deforestazione della dignità e del rispetto che meritano e, cosa ancor più importante, della loro soggettività in quanto individui, proprio come ognuno di noi.

Distinzioni che sembrano più il frutto di un processo mirato a provare meno senso di colpa nell’uccidere un essere vivente piuttosto che un sincero tentativo di preservare la vita altrui.
Pagine di giornali, comunicati delle varie associazioni che lanciano allarmi sulle specie in via di estinzione, mentre altre specie che non sono a rischio continuano a essere sacrificate nel totale disinteresse dell’opinione pubblica o peggio ancora per meri interessi di mercato.

Un recente studio pubblicato da ConservationLetters ha indicato come specie maggiormente a rischio di estinzione gorilla, orso polare, orso bruno, tigre, rinoceronte, lupo e panda.
Le cause che portano queste specie a rischiare l’estinzione sono molte, anche se tutte abbastanza collegate tra di loro: deforestazione, mercato dell’avorio, bracconaggio, cambiamento climatico, l’industria che si spinge sempre più in angoli incontaminati nel globo.

Oggi però non vogliamo soffermarci sulle cause che provocano il rischio di estinzione quanto piuttosto sul paradosso che fino a quando una specie non rientra in questa determinata categoria si abusa di lei senza alcuna preoccupazione; in maniera diretta o indiretta viene considerata un accessorio del Pianeta che deve subire tacitamente l’azione violenta dell’essere umano.
Così mentre diverse realtà si preoccupano di segnalare e denunciare le specie in via d’estinzione, poco viene fatto per impedire che altre specie subiscano lo stesso destino: per fare un esempio su tutti vogliamo citare le api e le farfalle monarca, deliberatamente avvelenate dai pesticidi (neonicotinoidi in particolare) impiegati sulle varie monocolture da multinazionali come Bayer, Syngenta e Monsanto.

ape morte multinazionali

Un caso particolare invece riguarda le volpi artiche, a rischio di scomparsa perché si cibano di pesci a loro volta avvelenati dal mercurio che viene disperso negli oceani attraverso le microplastiche e gli scarichi delle varie fabbriche industriali.

E parliamo quindi dei pesci e delle specie ittiche in generale, le più denigrate, le meno considerate e al tempo stesso le maggiormente sfruttate dell’intero Pianeta.

Così vediamo nascere campagne speciste e ipocrite volte a preservare solo quelle specie il cui sacrificio non è culturalmente accettato, o altre condotte a compartimenti stagni che ignorano la globalità della lotta e rallentano il processo verso la liberazione totale.
Per non parlare poi di quelle aziende che riescono nella missione di introdurre lo specismo nelle scuole, così da assicurarsi i consumatori di domani. Come nel caso di Rio Mare, che da molto tempo ha avviato un progetto scuole volto a spiegare ai bambini la sostenibilità e il rispetto ambientale attraverso lo sfruttamento delle specie considerate “inferiori”. Tutto questo in occasione dell’Expo 2015: espressione lampante del sistema specista e capitalista, ma vista di buon occhio da numerose associazioni animaliste e ambientaliste.

L’aspetto maggiormente triste forse riguarda quelle specie che, almeno per il momento, non possono rientrare nella categoria “a rischio d’estinzione”, perché socialmente sono ritenute indispensabili per l’alimentazione e quindi predisposte al sacrificio.
Sono gli animali definiti “da reddito”, quelli rinchiusi negli allevamenti per la produzione ininterrotta di carne e derivati animali: mucche, vitelli, maiali, conigli, cavalli, polli, galline, agnelli. Per loro all’orizzonte non vi è il rischio di estinzione, ma un destino di prigionia e nonvita che termina con una morte forzata, per poter diventare un prodotto a disposizione del consumatore.

Il punto è che se ami il tuo cane o gatto allora non dovresti consumare carne, pesce e derivati animali; che se ti indigni per il massacro dei delfini nella baia di Taiji allora non dovresti contribuire al sacrificio di altre specie ittiche per la tua gola; se lotti per impedire la scomparsa degli orango in Indonesia allora non dovresti finanziare l’industria della pelliccia, quella della carne o chi fa esperimenti sugli animali.

La verità è che non esistono specie meno meritevoli di altre, alle quali la vita si può strappare con leggerezza. La verità è che il termine specie è una barriera pericolosa, che annulla l’individualità e accentua la distanza.

Che si tratti di una, di 50 o di 70 miliardi, ogni vita va preservata e gli deve essere garantita la possibilità di vivere in libertà nel proprio habitat. Attraverso una maggiore coscienza collettiva, un rispetto reciproco che parta dalla tutela della Terra che ci ospita, affinché a ognuno/a, senza distinzione di specie, possa essere assicurato un luogo in cui poter vivere.

Siamo tutt* Terrestri!