Olimpiadi 2016: questo non è più sport!

Sono trascorsi due anni dal mondiale di calcio svolto in Brasile che si contraddistinse per i numerosi atti di violenza e oppressione subiti dalla popolazione locale, e che portarono, tra le altre cose, all’esproprio forzato di circa 300.000 persone le cui abitazioni vennero
distrutte per permettere la realizzazione delle infrastrutture necessarie allo svolgimento della manifestazione sportiva.
Questo però non è più sport, non lo era nel 2014, non lo è oggi alla vigilia dell’inizio delle Olimpiadi, una manifestazione che un tempo si distingueva da quelle legate al panorama del calcistico, ma che ormai è stata fagocitata da quel dio denaro che mastica tutto e tutti/e, come nel caso dei popoli indigeni la cui libertà viene giornalmente calpestata da chi vuole impadronirsi delle terre da loro abitate e da sempre difese.
Un genocidio che vede le sue origini nel 1500, quando i primi europei giunsero in Brasile dove all’epoca vivevano 10 milioni di indiani americani, una popolazione che, a causa dello sfruttamento subito e delle malattie, nel corso dei cinque secoli successivi sarebbe scesa a 100.000: minimo storico registrato nel 1950.
Le ragioni che alimentano gli atti d’oppressione mossi verso i popoli indigeni sono molteplici: industria della carne e dei derivati animali, deforestazione a favore delle monocolture di mai, soia, palma da olio, piantagioni di cacao, dighe, miniere e infrastrutture in generale che vanno ad occupare le terre un tempo abitate dalle tribù.
In questo caso si tratta degli stadi costruiti in questi ultimi anni a causa del mondiale brasiliano del 2014 e adesso delle Olimpiadi, come nel caso di quello di Manaus, l’unico nel cuore dell’Amazzonia ad ospitare eventi sportivi, e che prende tristemente il nome dal popolo che un tempo abitava le terre ora invase dal cemento: la tribù Manaos.
Un popolo schiavizzato per lavorare la gomma, una condizione che ha condotto allo sterminio di migliaia dei sui membri, deceduti a causa delle torture subite, delle malattie portate dall’industria e per malnutrizione.
In Brasile si trova il numero più alto di tribù incontattate di tutta la Terra, circa un centinaio, tra cui gli Kawahiwa e gli Awa che ogni giorno devono difendersi dalle operazioni condotte dagli allevatori e dai gruppi armati al soldo delle multinazionali, ingaggiati per sterminare questi popoli, distruggere ed impadronirsi delle foreste tropicali.

Gli Akuntsu, una delle ultime tribù rimaste, decimata dagli attacchi subiti.

Gli Akuntsu, una delle ultime tribù rimaste, decimata dagli attacchi subiti.

Uno stato d’oppressione spalleggiato dallo stesso governo brasiliano che da un lato appoggia le grandi compagnie e qualsiasi progetto possa rappresentare una fonte di guadagno, mentre dall’altro smantella quelle organizzazione a tutela dei popoli indigeni.
Come nel caso del FUNAI (Fondazione Nazionale degli Indio), una parte del Ministero della Giustizia del Brasile che da quando è stato chiuso ha visto incrementare il numero degli omicidi tra i leader indigeni, le estrazioni illegali delle risorse naturali e i tassi di mortalità e di suicidio infantile.
Ma tutti questi aspetti difficilmente salteranno agli onori delle cronache nel corso delle Olimpiadi, assorbiti da quel clima di omertà che porta a voltarsi dall’altra parte.
E non ci riferiamo ai politici o agli alti dirigenti che sono gli artefici dei crimini sopracitati, ma delle persone che, dopo aver appreso questi fatti, dovrebbero quanto meno rifiutarsi di seguire quelle che non sono più manifestazioni sportive, e divulgare queste notizie anche allo scopo di portare alla luce crimini che vanno denunciati anche dopo Rio 2016.
Ieri furono i mondiali di calcio brasiliani, oggi le Olimpiadi, domani il mondiale in Qatar che a sei anni dal suo svolgimento ha già causato oltre 1000 vittime tra gli schiavi utilizzati nei cantieri: arrestare questa spirale di oppressione è un dovere di tutti/e quanti/e!

Fonte: Survival