Partigiane e partigiani di oggi (aggiornato al 28/4)

Lo ripetiamo ancora una volta: questo vile attentato non minerà la nostra determinazione e l’impegno a combattere il terrorismo. Inoltre, invitiamo la gente del Rojava, in tutte le sue componenti, a resistere alle forze di legittima difesa contro tali attacchi.

Questa la dichiarazione del comandante generale del YPG, che invita il popolo del Rojava alla resistenza contro l’ISIS e il regime dittatoriale di Erdogan, a seguito del bombardamento da parte di 26 aerei militari turchi che, nella notte tra il 24 e il 25 aprile, ha provocato 28 vittime tra combattenti e civili, e circa 18 feriti.bombardamento rojava
I raid aerei, che sono proseguiti per tutta la giornata del 25 aprile, hanno colpito sopratutto le zone di Shengal (Kurdistan/Iraq) e Derik (la parte kurda del Rojava), intensificando i propri attacchi sui centri di informazione e comunicazione della resistenza: le sedi della radio Denge Rojava e CIRA-FM, e la sede YPG (unità di difesa popolare).
Il YPG e il YPJ (la divisione femminile) sono le unità di combattenti ad aver contribuito alla resistenza e liberazione di Kobane, e alla realizzazione della regione autonoma del Rojava.
Il bombardamento della scorsa notte da parte del regime turco rappresenta l’ennesimo atto repressivo contro i/le partigian* YPG e YPJ, e giunge nel bel mezzo della campagna Wrath of the Eufrate che in questo momento li vede impegnati nella liberazione di Raqqa.
Una campagna che, grazie all’impegno e al sacrificio dei resistenti, in questi ultimi mesi ha permesso la liberazione di migliaia di profughi, restituendo loro una terra da poter abitare.
Il Rojava, simbolo di autonomia e libertà, rappresenta una minaccia per i regimi totalitari come quello turco che con questi attacchi tenta di destabilizzarne l’operato, anche attraverso la realizzazione del muro sul confine con la Siria che ha provocato l’abbattimento di migliaia di ulivi e alberi da frutta.
Un’opera lunga 826 chilometri posta in una zona della Terra dove non mancano confini, barriere e limitazioni ad alimentare quell’intolleranza tra i popoli che favorisce solo l’oppressore, come spiegato da Luigi D’Alife: autore del documentario Binxet – sotto il confine.

In un Kurdistan diviso da quattro confini fra quattro Stati, per la popolazione curda che da sempre vive su quelle terre, quel confine non divide la Siria dalla Turchia, bensì il Bakur (Il Kurdistan del nord) dal Rojava (il Kurdistan occidentale). Quello che sta oltre il confine lo chiamano Serxet, sopra il confine, mentre il Rojava è Binxet, che tradotto letteralmente significa “sotto il confine”. Un confine che, come molti altri, è stato disegnato ai tavoli di pace dalle potenze occidentali e che segue in larga parte la linea della ferrovia Berlino-Bagdad, una delle “grandi opere” dei primi anni del ‘900, su cui poi è stato tracciato il confine nel 1921. Molte città, comuni, villaggi furono divisi in due: le tribù, le famiglie, decine di migliaia di curdi che vivevano sulla stessa terra, si trovarono separati da barriere di filo spinato e mine.
Tra le varie città che si trovano sul confine e che ho attraversato durante le riprese del documentario, mi ha colpito molto il caso di Serekanye. Serekanye si trova proprio a ridosso del filo spinato ed è stato una delle prime aree urbane in cui nel 2013 la Turchia ha dato inizio alla costruzione del muro. Dall’altra parte del confine c’è la città di Ceylanpinar. Serekanye e Ceylanpinar prima erano un’unica città e questo risulta visibile ancora oggi: le distanze sono così ravvicinate che si riesce ad osservare facilmente cosa accade dall’altro lato del confine, nelle strade e nelle case. Le bandiere delle YPG e della Turchia sembrano quasi sfiorarsi. Quando ho chiesto quale fosse il nome curdo di Ceylanpinar, mi è stato risposto semplicemente “Serekanye serxet”. Solo una delle tante città divise da quel confine.

La memoria è insufficiente se questa non conduce a rilanciare la resistenza, sostenendo chi ancora oggi lotta per la Liberazione e la libertà di tutt*.

  • Aggiornamento al 28 aprile

L’unità di difesa popolare YPG ha diramato le foto dei/delle combattenti rimast* uccisi nel corso del bombardamento dello scorso 25 aprile.
I raid aerei condotti dal governo turco, oltre alle vittime civili, hanno causato la morte di 20 partigiani e partigiane: 12 donne dell’unità femminile YPJ e 8 uomoni del YPG tra cui tre giornalisti.

Fino ad oggi abbiamo combattuto al fianco della coalizione contro il terrorismo Isis – ha proseguito – siamo ancora impegnate in questa lotta. Ma la nostra gente aspetta una risposta da noi sul perchè la coalizione non sta dando prova di una reazione concreta verso la Turchia. Se la coalizione non dà prova di una reazione concreta allora ritireremo le nostre forze da Raqqa. La coalizione deve convincere la nostra gente. Non siamo il bastone di nessuno con cui colpire il loro nemico

Questa la dichiarazione di Nesrin Abdullah, portavoce dell’unità femminile, a seguito dei bombardamenti, che esorta il mondo intero a non girarsi dall’altra parte e a sostenere chi combatte per la liberazione di tutt*, iniziando con la costituzione di una No Fly Zone sui cieli del Rojava.

Fonti: Alternative Libertaire – ReteKurdistan Dinamopress RSI – Globalist