Il muro di silenzio si sgretola

Lunedì 15 gennaio si è tenuta, presso il tribunale di Milano, la terza udienza relativa all’occupazione, avvenuta il 20 aprile 2013, dello stabulario del dipartimento di Farmacologia dell’Università Statale di Milano, ad opera di attiviste ed attivisti del Coordinamento Fermare Green Hill.

Un’azione volta a dissipare quel velo di omertà che ancora avvolge la sperimentazione animale, un muro di silenzio (come riportava il testo dello striscione esposto quel giorno dalle finestre dello stabulario) fatto di discorsi sul benessere animale, su l’inevitabilità del sacrificio di individui di un’altra specie e su l’indiscussa e indiscutibile importanza delle ricerche (di tutte le ricerche) per il benessere del genere umano (come si può leggere, ad esempio, nella lettera aperta scritta dai ricercatori a l’indomani dell’azione).
Un muro di silenzio fatto di un uso strumentale dei termini “violenza” e “terrorismo”, come ben spiega Antonio Volpe in un suo articolo dell’epoca.

Le persone che hanno condotto l’azione hanno agito a volto scoperto, apertamente e dichiaratamente con il solo scopo di liberare gli animali e dischiudere uno spiraglio sulla reale condizione di non.vita in cui essi sono costretti (ricordiamo la lettura di alcuni degli esperimenti fatta quel giorno, quella del registro di carico e scarico con il triste elenco di chili e chili di animali morti e smaltiti come rifiuti) e sulla necessità della messa in discussione di un modello che vede nel “sacrificio” (un sacrificio non deciso e non voluto dalle vittime) di vite spendibili per il solo motivo di essere considerate inferiori e quindi private di quella libertà che dovrebbe essere inalienabile.

Un muro di silenzio fatto, infine, di pressione esercitata dal proprio potere economico, come quella messa in atto, all’alba dell’inizio del processo, dall’Università di Milano e dal CNR che si sono costituiti parte civile avanzando una richiesta di risarcimento di svariate centinaia di migliaia di euro, in nome di presunti danni d’immagine, di perdita di animali, di soldi persi per le ricerche interrotte.
Soldi delle donazioni (a detta loro) non più pervenuti (ma basta andare sul sito Telethon per scoprire che gli stessi ricercatori che rivendicano i danni subiti sono ancora foraggiati da anni), e soldi persi in base al presunto valore che tali ricerche avrebbero potuto avere in un non ben precisato futuro.

Proprio su questo aspetto si è incentrata l’udienza del 15 gennaio, in cui sono stati ascoltati, in qualità di testimoni del PM, Gianluca Vago (allora rettore dell’Università Statale di Milano, lo stesso coinvolto nelle cariche della polizia contro gli studenti nell’ambito dello sgombero e distruzione della libreria ex-cuem nel maggio 2013); Paola Viani, l’allora vicedirettrice del dipartimento e Mario Zoratti, allora direttore dell’Istituto di Neuroscienze del CNR che proprio nei laboratori di via Vanvitelli svolgeva (e svolge) parte delle sue ricerche.

Quanto emerge dal report del dibattimento (riportato di seguito) è quanto mai ricco di contradizioni, e ha visto i tre interlocutori andare frequentemente in difficoltà, anche e sopratutto per la visione della ricerca che ne trapela.

Gli animali

A fronte dei discorsi sul “benessere”, sulla sensibilità etica dei ricercatori e delle istituzioni che la ricerca la portano avanti, pare non esserci certezza sul numero di animali che sono stati liberati. Nella prima denuncia pare si parlasse di un centinaio di animali, nella richiesta di risarcimento di più di cinquecento (tra cui otto conigli, mentre solo uno uscì quel giorno, sotto gli occhi di numerosi testimoni, dato quindi difficile da contestare), ma nel registro ufficiale di carico e scarico redatto dall’Università, che l’avvocato ha presentato come prova, il numero cambia di nuovo.
D’altra parte, come affermato da Vago, i suoi colleghi sembravano molto più colpiti per la perdita importante della loro ricerca che per il valore degli animali in sé.
Animali che vengono considerati merce, spostati come oggetti da un istituto all’altro.
Questo quanto emerge dall’esame delle fatture presentate per giustificare il costo degli animali liberati, ricevute che in otto casi indicavano come “destinazione merce” altre sedi (quella dell’Humanitas e quella della Fondazione Filarete).
Animali la cui vita (e morte o sparizione) veniva annotata su un registro denominato (con un umorismo che tanto sa di ridicolizzazione delle esistenze e della tragedia di quegli stessi animali che sostengono di rispettare) Destinazione Heaven: destinazione paradiso.
Un documento che non poco imbarazzo ha suscitato nella dottoressa Viani, che ne ha disconosciuto la provenienza asserendo che non vi sono codici riconducibili allo stabulario né intestazione, fascicolo non acquisito agli atti, ma che gli attivisti asseriscono essere stato fotografato all’interno quel giorno.
Animali che, a detta dei testimoni, nient’altro sono se non dati statistici, la cui vita ha importanza solo in quanto tali.

Gabbie e cartellini

Non è argomento di poco conto, perché proprio su un supposto spostamento dell’ordine delle gabbie e dei cartellini si basa gran parte della richiesta di danno economico.
Aver “mescolato” gli animali, infatti, li renderebbe irriconoscibili, non riconducibili ai vari esperimenti e quindi non più utilizzabili: come è possibile che, soltanto togliendo i cartellini identificativi (come sostengono aver fatto gli attivisti) non si riconoscano più gli animali relativi ad un determinato protocollo, se la posizione delle gabbie è invariata e se su quegli animali ricercatori e dottorandi hanno sperimentato per mesi se non per anni?

La risposta dei tre testimoni è stata univoca: all’entrata nello stabulario dopo l’occupazione, si è verificato non solo lo spostamento dei cartellini, ma anche delle gabbie stesse. A tal proposito è interessante l’affermazione della dottoressa Viani che sostiene di aver notato lo spostamento anche di alcune gabbie, ma, non conoscendo la loro posizione originaria, lo ha desunto dal fatto che queste non avevano “l’ordine che ci si aspetta in uno stabulario”.
Questa tesi era stata sostenuta anche dagli ufficiali di polizia interrogati ad ottobre, in antitesi con quanto sempre sostenuto dagli attivisti che hanno ammesso di aver tolto i cartellini, minacciando di buttarli dalla finestra durante la trattativa, ma non di aver spostato animali o gabbie.
Ma se gabbie ed animali non sono stati spostati, essendo le stanze mumerate e le gabbie ordinatamente impilate in file e piani, come è possibile che non ci sia memoria visiva da parte di quei ricercatori che lì hanno lavorato giorno dopo giorno?
E’questa l’attenzione che prestano alle vite e alle individualità degli animali che dicono di amare e rispettare?

Richieste economiche

Dalle testimonianze è emersa una notevole confusione di dati e cifre, nonché una totale mancanza di trasparenza nello stilare la richiesta di danni della parte civile.
Il dott. Vago sostiene di non sapere quali fossero i due dottorandi coinvolti (i cui stipendi annui sono stati addebitati per un totale di 60.000 euro), di non sapere se i dottorandi vengono adibiti ad un unico o più progetti.
Zoratti aggiunge che il costo imputato è decisamente esagerato e che un dottorando in media guadagna dai 14 ai 15.000 euro l’anno, ovvero la metà. Per quanto riguarda la quantificazione del valore delle ricerche (e dei finanziamenti persi), Vago parla di conteggi indicativi fatti sulla base di “potenziali perdite di dati che avrebbero permesso di proseguire la ricerca ed ottenere ulteriori finanziamenti”.
Zoratti, dal canto suo, ammette che una quantificazione del valore degli esperimenti interrotti è estremamente difficile. La richiesta di danni è stata fatta in base ad una stima che non può essere esatta: egli stesso ha affermato che qualsiasi criterio di valorizzazione sarebbe opinabile.
Abbiamo quindi una richiesta di risarcimento di centinaia di migliaia di euro basata su ipotesi, cifre falsate, stime non provate, animali conteggiati in maniera ogni volta diversa come meri strumenti di lucro.

Abbiamo un’azione diretta che avrebbe dovuto scardinare il muro di silenzio di una certa scienza che rifiuta di mettere in discussione i propri canoni etici.

Abbiamo un processo che vede i rappresentanti di quella scienza cercare per l’ennesima volta di tacitare ogni confronto appellandosi ad accuse di violenza, all’incalcolabile valore delle loro ricerche e future scoperte, ad un ostinato trincerarsi dietro il vessillo del rispetto delle leggi e delle regole sugli animali da laboratorio e sull’inevitabilità del loro sacrificio.

Abbiamo, forse, l’ultima possibilità di riaprirlo, quel confronto: partecipando alle udienze, diffondendo quanto emerge, non lasciando che il muro di silenzio avvolga anche quest’aula di tribunale.

SM