Dakota Access Pipeline: stanno tentando di sgonfiare la resistenza Sioux

Quando la resistenza, la lotta, l’opposizione di un popolo ad una qualche forma di discriminazione, oppressione, sfruttamento o dominio si fa troppo forte per essere contrastata, ricevendo anche solidarietà a livello internazionale, a quel punto le istituzioni tentano in qualche modo di sgonfiarla spostando l’attenzione su altre questioni o elargendo promesse parziali.
Questo è ciò che si sta verificando in queste ore a Standing Rock, in relazione alla lotta contro l’oleodotto che dovrebbe attraversare la terra sacra abitata dai Sioux Lakota.
La lotta che migliaia di persone conducono da mesi in Nord Dakota, sulle rive del fiume Cannonball, sulla Highway 1806, a Standing Rock e in varie località degli Stati Uniti attraverso blocchi e occupazioni delle banche che finanziano il Dakota Access Pipeline (tra cui Intesa San Paolo), lo scorso 4 dicembre potrebbe esser giunta ad una svolta decisiva.PipelineSign
Il condizionale purtroppo è d’obbligo, perché la dichiarazione del U.S. Army Corps of Engineers (sezione dell’esercito statunitense specializzata in ingegneria e progettazione) che ha annunciato di aver respinto la richiesta delle multinazionali interessate per la realizzazione della tratta di oleodotto sotto il lago Oahe, sembra dettata più dalle circostanze che da una reale volontà da parte dell’organo di tutelare la libertà di Terre e popoli, ma non c’è da stupirsi.
Le istituzioni di fatto stanno temporeggiando nella speranza che l’opposizione espressa dal popolo possa calare, sia a livello numerico che come copertura mediatica, un’aspetto quest’ultimo che ha permesso di internazionalizzare quella che è a tutti gli effetti parte della lotta per la liberazione della Terra.
La decisione dell’Army Corps è arrivata dopo mesi di proteste da parte dei nativi americani e dei/delle solidali, che sostengono la pericolosità di un progetto che, per 1.885 km, attraverserebbe una parte del fiume Missouri, danneggiando le terre sacre e rischiando di
contaminare le risorse idriche della zona.
Ma questo non significa che il progetto Dakota Access Pipeline sia stato accantonato, come prontamente dichiarato dalla Sunoco, azienda petrolifera statunitense che rappresenta l’insieme di multinazionali che spingono per la costruzione definitiva di un oleodotto che in certe tratte è già stato realizzato.
I quasi 2000 chilometri di oleodotto che dovrebbero passare sotto il fiume Missouri ne completerebbero il percorso che, al momento, è sotto analisi da parte dell’Army Corps che sta valutando la possibilità di modificarne la tratta.
La lotta quindi non è finita, come hanno già fatto notare numerosi membri indigeni, perché la pericolosità dell’oleodotto che, a pieno regime, sarebbe in grado di trasportare tra i 470.000 ai 570.000 barili di greggio ogni giorno, prescinde dal luogo nel quale potrebbe
essere realizzato, e sopratutto a causa dell’imminente ascesa del governo Trump che difficilmente rinuncerà a progetti correlati all’industria degli idrocarburi.
Un’industria che si colloca tra i primi fattori ad alimentare il fenomeno del surriscaldamento globale, oltre a rappresentare una delle principali cause di mortalità tra i lavoratori negli Stati Uniti.
Negli ultimi 20 anni, infatti, sono oltre 9.000 gli incidenti provocati dagli oleo/gasdotti, disastri ambientali che hanno causato 548 morti e 2.576 feritipipeline1
Oltre a mantenere alta l’attenzione su quanto sta accadendo ed accadrà a Standing Rock, la resistenza espressa in questi mesi dai Sioux Lakota e dai difensori della Terra deve fare eco in tutto il mondo come esempio di lotta diretta dal basso, che non deve puntare al blocco di una singola opera, ma allo smantellamento di quel sistema capitalista da cui ha origine ogni forma di dominio.

Fonti: Reuters – CityLab