Da l’olio di palma a quello di cocco: la filiera della schiavitù umana e animale

Il bombardamento mediatico di questi ultimi mesi potrebbe indurre il consumatore a pensare che quella dell’olio di palma sia una questione ormai risolta, ma è l’esatto contrario.
Le aziende dell’industria alimentare che fanno uso di questa sostanza si sono divise tra chi ha proposto linee di prodotti alternative privi di olio di palma (pur continuando ad impiegarlo in altri), chi continua ad utilizzarlo senza porsi il problema e chi, addirittura, ha avviato una campagna pubblicitaria per convincere il consumatore della sua salubrità e sostenibilità, come nel caso di Ferrero.
Due aspetti, salute del consumatore e sostenibilità della sostanza in questione, che hanno dato vita ad un acceso dibattito in Italia, sviando così da quelli che sono i problemi reali legati al mercato dell’olio di palma che fa sicuramente male, ma sopratutto a chi vive nelle zone colonizzate dalle multinazionali del settore.
Per multinazionali dell’olio di palma, però, non si devono intendere solo quelle i cui prodotti sono ben visibili sugli scaffali di ogni supermercato, ma anche quelle, forse più sconosciute, che si occupano del rifornimento delle prime, producendo direttamente la
sostanza incriminata.
Uno dei leader di questo settore è sicuramente la Wilmar, multinazionale che in questi anni è salita numerose volte agli onori delle cronache a causa degli incendi provocati in Indonesia, sopratutto a Sumatra e nel Kalimantan, per la persecuzione dei popoli indigeni che abitano quelle aree e ora per lo sfruttamento dei lavoratori impiegati nelle monocolture di palme da olio.

Foto: Amnesty Int.

Foto: Amnesty Int.

Le recenti indagini condotte da Amnesty International, che ha intervistato 120 lavoratori della Wilmar, hanno portato alla luce le seguenti violazioni:

– donne costrette a lavorare per molte ore dietro la minaccia che altrimenti la loro paga verrà ridotta, con un compenso inferiore alla paga minima (in alcuni casi, solo 2,50 dollari al giorno) e prive di assicurazione sanitaria e di trattamento pensionistico;
– bambini anche di soli otto anni impiegati in attività pericolose, fisicamente logoranti e talvolta costretti ad abbandonare la scuola per aiutare i genitori nelle piantagioni;
– lavoratori gravemente intossicati da paraquat, un agente chimico altamente tossico ancora usato nelle piantagioni nonostante sia stato messo al bando nell’Unione europea e anche dalla stessa Wilmar;
– lavoratori privi di strumenti a protezione della loro salute, nonostante i rischi di danni respiratori a causa dell’elevato livello di inquinamento causato dagli incendi delle foreste tra agosto e ottobre 2015;
– lavoratori costretti a lavorare a lungo, a costo di grave sofferenza fisica, per raggiungere obiettivi di produzione ridicolmente elevati, a volte usando attrezzature a mano per tagliare frutti da alberi alti 20 metri;
– lavoratori multati per non aver raccolto in tempo i frutti dal terreno o per aver raccolti frutti acerbi.
(dal rapporto “Il grande scandalo dell’olio di palma: violazioni dei diritti umani dietro i marchi più noti” di Amnesty International)

Questo permette anche di dipanare una volta per tutte quell’errata convinzione che porta a pensare che il mercato dell’olio di palma rappresenti un’opportunità lavorativa per i popoli della zone colpite, quando invece la realtà parla di terre espropriate e schiavitù nelle
piantagioni.
Ad approvigionarsi direttamente dalla multinazionale incriminata sono AFAMSA, ADM, Colgate-Palmolive, Elevance, Kellogg’s, Nestlé,
Procter & Gamble, Reckitt Benckiser e Unilever, otto di queste, oltre la stessa Wilmar, fanno parte dell’RSPO, quell’organo di facciata fondato nel 2004 dalle stesse aziende del settore allo scopo di sostenere l’esistenza di un mercato sostenibile dell’olio di palma, mascherando così i crimini condotti.
Questo però non significa che le multinazionali da boicottare siano solo quelle citate o che esistano produzioni di olio di palma da potersi considerare sostenibili.A5 prodotti odp marchi odp bio
Come non bisogna dimenticare che questa sostanza viene impiegata anche dal settore cosmetico e, sopratutto, per la produzione dei falsi biodiesel che rappresentano la fetta più grande di questo mercato.
Ma la filiera dello schiavismo colpisce anche gli animali (tra cui orango, tigri, rinoceronti ed elefanti) sopravvissuti alle opere di deforestazione, molti dei quali vengono catturati dai bracconieri per essere rivenduti a zoo e circhi, ma anche per essere impiegati direttamente in quelle stesse monocolture che hanno preso il posto del loro habitat naturale, della loro casa.
Questo è il caso delle scimmie utilizzate nel mercato dell’olio di cocco, un’altra sostanza di origine tropicale che sta soppiantando quello di palma in numerosi prodotti, che vengono ammaestrate per essere impiegate nella raccolta delle relative noci.scimmie cocco2
Un’aspetto che avremo modo di approfondire in seguito, frutto di quel fenomeno chiamato specismo che porta a considerare gli animali solo in relazione allo scopo che possono avere per gli interessi dell’uomo, in questo caso dell’industria alimentare.
Una questione che sottolinea ancora una volta la necessità di andare oltre al mercato dell’olio di palma, punta dell’iceberg di un sistema capitalista basato sullo sfruttamento di ogni risorsa della Terra e che deve condurre ad una visione più amplia della lotta, ad un
boicottaggio sempre più serrato di tutti quei prodotti causa di deforestazione, sfruttamento animale e oppressione dei popoli, sino al prendere le distanze dall’industria e dalla grande distribuzione organizzata.