Eni: i tre volti del cane a sei zampe

“Diamo all’energia energia nuova”: questo è lo slogan dell’Eni che ormai imperversa da tempo su diversi canali pubblicitari, ma noi riteniamo che “Nuove energie, i soliti velEni” sia molto più adatto, come del resto abbiamo dimostrato durante la protesta dello scorso 29 marzo a Marghera.

Marghera, 29 marzo 2014, 1° manifestazione contro il mercato dell'olio di palma.

Marghera, 29 marzo 2014, 1° manifestazione contro il mercato dell’olio di palma.

 

Eni, oltre che avere sei zampe, può vantare anche tre diversi volti perché riesce ad avvelenare il pianeta e i suoi abitanti in tre modi differenti:

  1. continuando ad estrarre petrolio;
  2. importando olio di palma dall’Indonesia e dalla Malesia;
  3. spingendo perché l’Europa investa nel fracking.

Sul progetto malato di Porto Marghera ci siamo già pronunciati a dovere, abbiamo imparato che l’olio di palma sostenibile non esiste, che non risponde ad alcun parametro perché possa essere impiegato per la produzione di “bio”carburanti, che il suo impiego è devastante sotto ogni punto di vista.
L’impianto Eni di Porto Marghera punta ad una capienza di 500.000 tonnellate di olio di palma, che tradotte in termini ambientali significa:

  1. 180.000 ettari di foresta distrutti e convertiti in monocolture intensive;
  2. circa 1200 orango privati della casa e probabilmente della vita, come molte altre specie animali della zona;
  3. infinite popolazioni espropriate della casa e dei terreni attraverso i quali sopravvivevano.

Ma, per non fare torti a nessuno, mentre da un lato Eni contribuisce alla devastazione delle foreste tropicali del Sud-Est asiatico, sbandierando la produzione di carburanti falsamente sostenibili, dall’altra continua ad estrarre petrolio impoverendo e avvelenando terreni italiani.

La Basilicata da oltre 20 anni è soffocata dalle speculazioni dell’Eni, ma non solo. Anche Total e Shell sono presenti sul territorio e tutte insieme si spartiscono la gestione dei tre principali stabilimenti: Gorgoglione, Serra Pizzuta e quello presente in Val d’Agri.
Il 71% della produzione di petrolio nazionale proviene dai giacimenti presenti in Basilicata, una terra che viene considerata unicamente a tale scopo, sfruttata, impoverita e avvelenata senza alcun indennizzo, valorizzazione del territorio e salvaguardia per la salute della popolazione.
Mille chilometri quadrati di territorio lucano sono stati dati in concessione per l’estrazione di petrolio e sotto la pressione delle compagnie petrolifere pare che ci siano già altri mille chilometri quadrati che rischiano di fare la stessa fine.
Ma la popolazione della Basilicata, logora e stufa dei comportamenti tenuti dalle multinazionali del petrolio, ha iniziato a lottare e ribellarsi, formando comitati, agendo per la tutela della propria salute ed il futuro della propria terra.
A preoccupare i lucani al momento vi è sopratutto il progetto del pozzo “Pergola 1”, in provincia di Potenza, al momento solo un pozzo esplorativo, ma che rischia di diventare l’ennesima ferita inflitta a queste terre. Il pozzo in questione nasce in una zona ricca di sorgenti idriche e poco distante dalla contrada San Vito, dove vi sono molte abitazioni.
Questo sta notevolmente preoccupando la popolazione: l’estrazione di petrolio è tra le più pericolose in merito al rischio di inquinamento delle risorse idriche, della salute del suolo e quindi di quella delle persone.

Il terzo volto dell’Eni si chiama fracking: tecnica di perforazione della terra che prevede l’impiego di tonnellate di litri d’acqua, mischiate a sabbia e additivi chimici che vengono iniettate nel sottosuolo ad altissima pressione, per creare crepe nella roccia in modo da estrarre gas scisto.
Questa tecnica è particolarmente utilizzata negli Stati Uniti da parte della Chevron, che ha già attivato un progetto anche in Romania, e in Inghilterra da parte della Total.

I movimenti di protesta contro questa tecnica estrattiva e le multinazionali che ne fanno uso non si sono fatti attendere.
Le proteste mosse dagli attivisti sono rivolte soprattutto all’altissimo rischio di inquinamento delle falde acquifere oltre che allo spreco di enormi quantità di acqua che vengono impiegate durante le perforazioni. A suscitare molta preoccupazione vi è anche il collegamento, accertato di recente, tra l’aumento delle scosse sismiche nelle zone dove viene praticato il fracking, come è accaduto in Oklahoma, dove le scosse registrate sono raddoppiate.

Anche i danni alla salute delle persone sono ormai evidenti: di recente una famiglia del Texas è stata risarcita per i disagi patiti a causa di scavi condotti dalla ditta Aruba Petroleum che aveva creato circa 20 pozzi per il fracking nei pressi della loro proprietà.
I componenti della famiglia in questione erano soggetti a: emorragie dal naso, battito cardiaco irregolare, spasmi muscolari, ulcerazioni sulla pelle, la loro acqua non era più potabile e i loro animali domestici hanno perso la vita.

Eni starebbe facendo pressioni sulla UE perché acconsenta le trivellazioni sul territorio europeo, affinché non debba essere più costretta ad acquistare il gas scisto dalla Russia. In alternativa, ha in cantiere un progetto che prevederebbe la colonizzazione di terre in Africa, ma che per il momento è fermo.

Come al solito non viene utilizzato alcun criterio di tutela della persona né tanto meno dell’ambiente: ciò che interessa a queste aziende è unicamente il guadagno a prescindere della salute o della vita altrui, troppa è la paura di non poter essere concorrenziali con le altre multinazionali del settore.

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