Olio di palma certificato RSPO: garanzia di insostenibilità

In Italia nel 2015 è stata importata il doppio della quantità di olio di palma rispetto all’anno precedente: 307 mila tonnellate contro le 187 mila del 2014.
L’olio di palma importato proviene dalla Malesia, il secondo produttore mondiale di questa sostanza (il primo rimane l’Indonesia con l’85%).
La maggior parte dei media nostrani però rassicurano il consumatore, scrivendo che il 25% dell’olio di palma importato è certificato RSPO. Tralasciamo per un attimo il fatto che comunque si tratta solo di 1/4 del totale importato; concentriamoci sull’RSPO, una sigla che non è certo sinonimo di sostenibilità.
Non esiste, infatti, un mercato sostenibile di questa sostanza, contrariamente a quanto vorrebbe farci credere tale certificazione, sostenuta da aziende, multinazionali e associazioni pseudoambientaliste che hanno venduto il proprio credo.
L’RSPO è un organo di facciata, una brillante operazione di greenwashing architettata dalle multinazionali per le stesse multinazionali del settore, volta a nascondere i crimini che si nascondono dietro al mercato dell’olio di palma.rspo fuck
Questa tavola rotonda, che di fatto certifica e legalizza la deforestazione, nasce nel 2004 in Malesia, ma viene registrata in Svizzera, ed è fondata da multinazionali del calibro di Aak, Migros, MPOA (Malesyan Palm Oil Association) e Unilever, alle quali un anno dopo si sono aggiunte Cargill e Wilmar (colpevole di numerosi incendi scoppiati nelle foreste del Borneo). Il tutto sostenuto e supportato da WWF, al preciso scopo di offrire all’RSPO quel velo di sostenibilità necessaria per poter vendere la biotruffa al consumatore.
Successivamente altre multinazionali entrano a far parte della tavola rotonda dell’insostenibilità: McDonalds, PepsiCo, Nestlé, Mars, L’Oreal, P&G, Sime Darby, Ferrero, Mulino Bianco, ma anche aziende del biologico come Baule Volante, La Finestra sul Cielo, Ecor, Rapunzel, i cui traffici hanno contribuito alla guerra civile in Colombia, e molte altre.

In sintesi, il 75% dell’olio di palma importato nel 2015 in Italia, è frutto degli incendi e delle opere di deforestazione indiscriminata che da oltre 20 anni colpiscono il sud est asiatico.
Ricordiamo che solo nel periodo tra settembre e novembre 2015 sono stati distrutti 700 mila ettari di foresta a tale scopo.
Mentre il restante 25% della sostanza incriminata proviene da opere di deforestazione legalizzata e certificata da quelle multinazionali che speculano sulla salute della Terra.

Le monocolture, di qualsiasi produzione si tratti, non possono comunque essere definite sostenibili per le seguenti ragioni:

  • Non permettono a un terreno abituato a ospitare biodiversità vegetale e animale di usufruire di quel naturale ricambio grazie al quale si nutre di sostanze diverse in periodi diversi dell’anno, che lo mantengono vivo;
  • Per mantenere molte piante in poco spazio, si fa largo impiego di agenti chimici, quali pesticidi, erbicidi e quant’altro, tutte sostanze che, ovviamente, impoveriscono e avvelenano ulteriormente il terreno;
  • La coltivazione intensiva di un’unica specie vegetale necessita di enormi quantità di acqua per crescere e dare i frutti e determina la morte del terreno nell’arco di due anni, rendendolo incapace di ospitare e generare vita.

Da sottolineare ancora che l’olio di palma per giungere in Europa dall’Indonesia deve affrontare un viaggio di circa 13.000 chilometri, della durata di 24 giorni, periodo durante il quale la suddetta sostanza deve essere tenuta in appositi silos che la mantengano a temperatura ambiente, altrimenti si solidificherebbe e sarebbe inutilizzabile. Le emissioni di CO2 nel corso del viaggio sono quindi devastanti e il principio del chilometro zero, uno dei parametri che dovrebbe garantire la sostenibilità di un prodotto, viene completamente sgretolato.
Il solo olio di palma a poter essere considerato sostenibile è quello che non viene prodotto!logo stopodp